Così un algoritmo ha decifrato il mistero della “Lettera del diavolo”

set 5, 2017 0 comments
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Di Laura Anello

Monastero di clausura di Palma di Montechiaro, 11 agosto 1676. Suor Maria Crocifissa della Concezione, al secolo Isabella Tomasi, viene trovata seduta a terra nella sua cella, «mezza faccia sinistra imbrattata di nero inchiostro», il respiro affannoso, il calamaio sulle ginocchia, un foglio tra le mani scritto in un alfabeto incomprensibile. Una lettera, racconta la suora alle consorelle, dettatale da Satana in persona al termine di una lotta estenuante con un gruppo di demoni. Comincia così un mistero che ha riempito i verbali dell’epoca, appassionato scrittori come Tomasi di Lampedusa (pronipote della suora) e Andrea Camilleri, indotto La Domenica del Corriere a bandire tra serio e faceto un concorso, negli Anni 60, promettendo un soggiorno di un mese ad Agrigento per chi riuscisse a tradurre la lettera.  

Il centro catanese  
Ebbene, un gruppo di fisici e di informatici catanesi, gente che con la scienza ci vive (e ci gioca nel Ludum Science Center che anima alle porte di Catania) l’ha appena decifrata, utilizzando un programma di decriptazione preso dal «deep web», il grande mare nascosto della rete, che non si trova su Google perché non vuole essere cercato. «C’è di tutto là dentro - dice Daniele Abate, 49 anni, responsabile del team e direttore del Ludum - droga, prostituzione, pedofilia, e anche programmi utilizzati dall’intelligence per decifrare messaggi segreti, come quello che abbiamo usato noi. Algoritmi che fanno tentativi di decifrazione, individuando caratteri simili che si ripetono. Un tentativo, è bene chiarirlo, ma un tentativo i cui esiti ci hanno stupiti».  

Già. Quelle undici righe, che ricordano a prima vista un po’ il greco classico e un po’ l’alfabeto cirillico, raccontano infatti qualcosa. Non del tutto coerente, non del tutto comprensibile, ma certo relazionata con Dio e con Belzebù: «Forse ormai certo Stige», si legge nella lettera, e Stige è uno dei cinque fiumi degli Inferi secondo la mitologia greca e romana. E poi ancora: «Poiché Dio Cristo Zoroastro seguono le vie antiche e sarte cucite dagli uomini, Ohimé». E infine: «Un Dio che sento liberare i mortali».  

Ma come si fa a tradurre la lingua del diavolo? «Abbiamo inserito nel programma - spiega Abate - l’alfabeto greco, quello latino, quello runico (delle antiche popolazioni germaniche) e quello degli yazidi, il popolo considerato adoratore del diavolo che abitò il Sinjar iracheno prima della comparsa dell’Islam, tutti alfabeti che suor Maria Crocifissa poteva avere visto o conosciuto. L’algoritmo prima individua i caratteri che si ripetono uguali, poi li compara con i segni alfabetici più simili nelle varie lingue». 

Qui al Ludum l’aria che si respira è quella di illuministi figli del pensiero laico. «L’idea che mi sono fatto - dice ancora Abate - è che questo sia un alfabeto preciso, inventato dalla suora con grande cura mischiando simboli che conosceva. Ogni simbolo è ben pensato e strutturato, ci sono segni che si ripetono, un’iniziativa forse intenzionale e forse inconscia. Lo stress della vita monacale era molto forte, la donna potrebbe avere sofferto di un disturbo bipolare, allora non c’erano farmaci né diagnosi psichiatriche. Certamente c’era il diavolo nella sua testa».  

La lotta contro il Male  
Per la Chiesa di allora, invece, la lettera è l’esito della lotta contro uno stuolo di «innumerabili spiriti maligni» decisi a utilizzare suor Maria Crocifissa - fatta poi beata - come «misero corsiero» per un messaggio preciso: chiedere a Dio di lasciare i mortali ai loro peccati, e di smettere di elargire «Misericordia e Pietà». Di non strapparli dalle braccia di Lucifero, insomma. Lotta strenua, a leggere il verbale stilato dall’abbadessa Maria Serafica, che raccoglie le parole della monaca. Sarebbero stati i diavoli a costringerla a firmare la lettera (e lei, eroicamente, si sarebbe opposta scrivendo «Ohimé», l’unica parola comprensibile del documento). Sarebbero stati i diavoli a imbrattarle la faccia di inchiostro, a minacciare di picchiarla col calamaio «ma non lo permise il Signore, perché se ciò succedeva moriva sicuramente, perché era di bronzo».  

Suor Maria Crocifissa ne uscì tramortita, mentre i diavoli le ordinavano di portare subito il messaggio a Dio altrimenti «l’avrebbero castigata severamente». Quelle 14 righe misteriose (custodite nel monastero di Palma di Montechiaro, ma una copia sta nell’archivio della Cattedrale di Agrigento) sono tutto ciò di quel che resta della lotta con Belzebù. C’erano altri due messaggi dei demoni, ma la suora non li scrisse e li portò con sé nella tomba. «Non mi domandate di questo per carità - disse alle consorelle - che non posso in verun modo dirlo, e nemmeno occorre dirlo io, che verrà tempo che il tutto udirete e vedrete». 

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