Nel prepararci ad affrontare il quarto anno di
crisi finanziaria globale, appare sempre più chiaro che il patto
economico e politico che sta alla base della nostra società postbellica è
ormai in pieno disfacimento. Non è più il caso di interrogarsi su
quando le nostre società torneranno alla normalità , perché ciò non
avverrà . Né dovremmo chiederci quando finirà la crisi, perché è
destinata a prolungarsi forse per decenni. Ed è una crisi che cambierÃ
la vita della stragrande maggioranza della popolazione più radicalmente
di quanto non abbia fatto la fine della Guerra fredda o l’11 settembre.
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di Adam Haslett sul “Corriere della Sera” del 6 dicembre 2011
.
Per due decenni e mezzo dopo la Seconda guerra mondiale,
l’Occidente ha conosciuto un periodo di straordinaria espansione
economica. Ma già dagli ultimi anni 60, questa avanzata aveva cominciato
a segnare il passo. Come ha di recente affermato Wolfgang Streeck,
amministratore delegato dell’Istituto Max Planck per gli studi sociali,
il rallentamento della crescita ha innescato, nel sistema capitalistico,
crisi a ripetizione. Prima fra tutte, l’inflazione. Dovendo
fronteggiare la recessione dei primi anni 70, i governi hanno preferito
stampare denaro per stimolare i consumi e tenere a bada la
disoccupazione.
Ma entro la fine del decennio l’inflazione aveva
strangolato i nuovi investimenti, facendo aumentare la disoccupazione.
Nei primi anni 80, ancora una volta davanti allo spettro della
recessione, i governi hanno fatto ricorso alla spesa pubblica, gonfiando
il deficit dello Stato per rilanciare i consumi, Usa e Gran Bretagna in
particolare hanno ingaggiato un braccio di ferro con i sindacati nel
tentativo di ostacolare le loro richieste di aumenti salariali.
Però, già nei primi anni 90, debito pubblico e difficoltà di
bilancio avevano cominciato a innervosire i mercati finanziari. Nel
tentativo di sostenere la crescita e al contempo ridurre il deficit, sia
Washington che Londra hanno liberalizzato in maniera decisiva il
settore finanziario.
Lasciando carta bianca ai finanzieri di inventarsi e
immettere sul mercato un’infinità di nuovi strumenti di gestione del
debito privato, i governi hanno distolto lo sguardo dagli Stati sovrani,
preferendo chiedere prestiti da aziende e individui in grado di
finanziare i loro consumi (e speculazioni), finendo per indebitare le
future generazioni.
Ne sono venute fuori due bolle degli asset, la prima nel settore
informatico e la seconda nel mercato immobiliare americano, provocando
il crollo di Lehman Brothers nel 2008 e dando avvio all’attuale crisi.
Pertanto, se consideriamo il contesto storico, è lecito affermare che
ciò che è in fase di sviluppo non può definirsi semplicemente una
contrazione particolarmente grave del ciclo economico ordinario,
destinata a esaurirsi.
No, oggi assistiamo all’accelerazione di una crisi
endemica delle economie occidentali che va aggravandosi da un
quarantennio, man mano che si è tentato di ripetere i successi
economici, considerati «normali», di quello che era in realtà un periodo
storico anomalo, ovvero gli anni del dopoguerra. Inoltre, nel corso
degli ultimi due decenni, l’industria finanziaria, sgravata da ogni
vincolo, si è conquistata un potere politico talmente grande da bloccare
qualsiasi riforma delle sue operazioni, in particolare su scala
globale, dove sono indispensabili, imponendo la pratica della
distribuzione verso l’alto dei profitti raccolti.
Negli Usa, stagnazione economica e ripartizione
sempre più oligarchica della ricchezza hanno innescato proteste popolari
su una scala che non si vedeva dagli anni 60. Nel frattempo in Europa
l’euro rischia di sparire e l’intero progetto postbellico di
integrazione potrebbe da un momento all’altro inserire la marcia
indietro, molto più in fretta di quanto si possa immaginare. I governi
tecnici insediati in Grecia e Italia sono probabilmente condannati al
fallimento perché le misure varate non sono legittimate dal suffragio
popolare.
Negli Usa, l’egemonia del mercato si fa sentire
attraverso i contributi illimitati che il mondo finanziario e
industriale può offrire alla campagna elettorale, e tramite le pressioni
esercitate sul Congresso si rivela capace di aggirare e vanificare le
scelte popolari a favore di una più equa ridistribuzione della
ricchezza. Sia al di qua che al di là dell’Atlantico, le esigenze delle
élite finanziarie si scontrano con la volontà popolare, apertamente
ignorata.
Se dovessero radicarsi, tali tendenze potrebbero
sfociare in un assetto politico non più riconoscibile come democrazia,
dando vita a un sistema capitalistico, sì, ma non democratico. È assai
poco rincuorante constatare che l’attuale crisi non rappresenta che un
semplice ingranaggio nell’evoluzione storica complessiva del capitalismo
occidentale, che continua a ridistribuire la ricchezza verso l’alto, a
indebolire le istituzioni democratiche e a concentrare il potere nelle
mani di pochi individui. È questa forza trascinante che continuerà a
influenzare la nostra vita nei prossimi decenni, non le vicende
altalenanti delle odierne difficoltà economiche. E se per il momento non
è possibile imbrigliare questa forza, non ci resta che sforzarci di
comprenderla con maggior chiarezza.
Da Storia in Rete
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