L’inganno della Meritocrazia: perché la “società dei migliori” può essere una "distopia"

dic 17, 2012 3 comments

Mer6

Di Federico Sbandi
http://dailystorm.it

MERITO O ME-LO-MERITO? – La nostra riflessione sul concetto di meritocrazia parte da un articolo pubblicato lo scorso 25 novembre da un blogger de Il Fatto Quotidiano: Antonio Nicita. Il post del Professore di Politica economica, verte sulla distinzione tra merito concreto e merito percepito (quello che lui definisce il “me-lo-merito”). Chi è vittima del merito percepito? Tutta quella parte della popolazione che, pur professando il dogma della meritocrazia, non intuisce che la realizzazione di tale aspettativa indurrebbe alla propria stessa esclusione dalla “società dei migliori”. Perché? Perché tutti, o quasi, ci riteniamo meritevoli di qualcosa. E in virtù di questo arrogante presupposto consideriamo che sia giusto tifare in favore di una tale utopia, convinti che ne gioveremmo in prima persona.
Il pericolo principale, secondo il Professore, consiste nella manipolazione che la politica può attuare nei confronti di questa malriposta speranza: vendere la promessa di una società meritocratica può, per un candidato politico, garantire un certo consenso nel momento in cui gli elettori, ammaliati da un’ars oratoria convincente e dalla promessa di un futuro “inclusivo”, potrebbero votarlo proprio in virtù di questa speranza. È risaputo quanto, specie in Italia, l’elettorato voti su base emotiva e non razionale. Per questo la campagna elettorale si traduce in una scontro dialettico vinto a suon di promesse e di sogni: più le promesse saranno generali (tipo, garantire una società più meritocratica) e più sarà possibile non rispettarle una volta eletti, proprio perché data la loro intangibilità il cittadino poi non potrà recriminare.
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ESSERE LAUREATI SIGNIFICA “MERITARE UN LAVORO”? – Passiamo ora al secondo punto, quello inerente al merito concreto. A ben vedere, oltre al merito immaginario esisterebbe anche un merito tangibile, riscontrabile e misurabile nella nostra società. Ma è davvero così? Esistono criteri empirici di valutazione del merito o questo concetto rappresenta una mera astrazione culturale? Analizziamo il luogo comune più esemplificativo.
Digital Image by Sean LockeDigital Planet Designwww.digitalplanetdesign.com«È meritevole chi consegue un titolo di studio». L’aumento di laureati (in relazione ad un’offerta di lavoro in costante diminuzione) ha depotenziato questo titolo nell’ambito lavorativo. Da quando sono state istituite le lauree triennali in alternativa a quelle quinquennali, il numero dei titolati si è impennato per ovvi motivi: molti sono più spronati ad intraprendere il percorso, in realtà anche controvoglia, pur di dare una minima gioia ai genitori (o come passatempo, per “sembrare” universitari), illudendosi poi di avere il lavoro in tasca una volta ottenuta la propria laurea breve. Questo perverso ragionamento fa comodo agli atenei: più studenti, più rette universitarie. Ma come qualunque bene in eccesso (dove “per eccesso” si intendono tutte quelle lauree che, dati Ocse alla mano, non porteranno a nessun lavoro), questo titolo di studio ha perso valore. Il motivo? Un’idea sbagliata di “status” sociale in qualche modo connesso al semplice possedere un pezzo di carta, da avere per poter contare qualcosa in una società competitiva come la nostra.
Senza considerare che nel reale mondo lavorativo, un mono-laureato con 5 anni di esperienza lavorativa alle spalle risulterà avere ben più valore per un teorico datore di lavoro, rispetto ad un tri-laureato con tanta teoria in mano e zero pratica all’attivo. Qui si apre un’altra criticità: il titolato sarà davvero più efficiente come lavoratore? Molto spesso alcune leggi di Stato richiedono titoli specifici più per questioni formali che di sostanza. Un’intraprendente autodidatta potrebbe surclassare, in quanto a lena ed ingegno, un laureato svogliato o completamente distaccato dalla realtà lavorativa. E qui si torna alla riflessione del primo paragrafo: molti titolati ritengono di possedere illasciapassare per una élite. Anche se, a conti fatti, proprio in quella leggendaria società meritocratica avere una laurea in tasca non equivale a “meritare un lavoro”. Perché se è vero che il lavoro (in generale) è un diritto, è anche vero che tutti i laureati si aspettano di trovare occupazione nel settore (specifico) di competenza. Il che sarebbe sacrosanto qualora il singolo avesse compiuto un percorso qualitativamente pregevole. Nel caso di un percorso di “sopravvivenza” (magari una triennale presa per hobby in 5-6 anni) è bene che il titolato non si faccia carico di alcun merito.
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Mer3LA SOCIOLOGIA SI OPPONE: I LATI OSCURI DELLA MERITOCRAZIA – Comunemente, si ritiene che la parola meritocrazia possa avere solo un’accezione positiva. Questo è paradossale se si pensa alle sue origini storiche: il primo a parlare di questo concetto fu il sociologo Michael Youngche nel ’58 descrisse, in un suo saggio intitolato The Rise of the Meritocracy, un futuro distopico in cui i migliori (per quoziente intellettivo) avrebbero preso il sopravvento sul resto della popolazione. L’autore profetizzava due risvolti oscuri. Innanzitutto l’impossibilità di sancire, davvero, l’intelligenza di una persona in quanto i criteri di rilevazione sarebbero stati sempre e comunque arbitrari e non oggettivi: basti pensare ai tanto discussi test d’ingresso per le università o ai quiz proposti per i concorsi pubblici (scremano davvero la massa per ottenere il meglio possibile?). Infine, si denunciava il fatto che una “minoranza creativa” si sarebbe imposta, dall’alto della propria arroganza e compiacenza, distaccandosi dai reali interessi del popolo eperpetuando logiche di potere e di discriminazione contro la massa stolta. «Every selection of one is a rejection of many»: darwinismo sociale allo stato puro.
Un altro sociologo britannico, Laurie Taylor, ha ammesso la presenza di un’altra declinazione negativa per il concetto di meritocrazia: «the hideous thing about meritocracy» sta nel fatto che, implicitamente, essa tenda a difendere lo status quo, ovvero l’ordine precostituito delle cose, facendo in modo che le persone al potere sono e resteranno lì. Hai fatto di tutto nella vita per arrivare al “top” ma hai fallito? Banchieri, politicanti e businessman vari sono rimasti al loro posto? È colpa tua: forse eri geneticamente troppo stupido per arrivare in vetta. Sarebbe poi interessante declinare il concetto di “vetta”: un trader che specula in Borsa o un manager di una grande multinazionale di tabacco, socialmente, sono considerate persone giunte al top. Anche se poi, nel concreto, non fanno altro che far girare denaro con effetti alquanto discutibili sulla qualità della vita del resto della popolazione, quella appunto non al top.
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Mer5BUONI PROPOSITI –  La meritocrazia, in sostanza, non tiene conto delle variabili socio-culturali che impediscono, ad esempio, ad una persona povera alla nascita di avere le stesse possibilità di una benestante. Per questo, già di partenza, è impossibile ritenere che tutti possiedano gli stessi strumenti. Dunque, se non si ottengono i risultati sperati, la causa non è da riscontrare nella mancanza di impegno personale (fattore interno, gestibile) ma nell’ingiustizia sociale di base (fattore esterno, incontrollabile). Senza maggiori uguaglianza ed equità, insomma, non potrà mai esservi vero merito: oggettivo e riconosciuto socialmente in base, appunto, ad una diversa idea di “vetta” da costruire in termini di utilità collettiva.
La questione è spinosa e non è certo in questa sede che si tireranno le somme di un dibattito sociologico-filosofico che va avanti da decenni. Una società meritocratica può esistere? Il concetto stesso di meritocrazia può davvero avere delle accezioni positive? O rappresenta solo l’astrazione buonista di una società irrealizzabile? La questione è aperta ma a giudicare dalla realtà quotidiana non solo la meritocrazia sembra non poter essere applicata ma risulta anche essere deleteria, per la politica (come arma di distrazione di massa) e per la società (come speranza fittizia). Una trappola, più che un valore, come molti lo disegnano sbagliando. Quel che, per ora, ci è concesso, è divalutare le fallacie argomentative riguardo alla difesa di uno di quei concetti che viene dato per scontato ed elogiato anche se, in realtà, meriterebbe più di un approfondimento. Aspetta, ho detto “meriterebbe”?


Fonte:http://dailystorm.it/2012/12/14/linganno-della-meritocrazia-perche-la-societa-dei-migliori-e-una-distopia/

Commenti

  1. Ciao, sono Nicolò Boggian, Direttore del Forum della Meritocrazia, sono un sociologo e credo che aldilà delle sottigliezze siamo tutti d'accordo su cosa sia invece la demeritocrazia, tanto la vediamo praticata intorno a noi. Superare questo stato non è facile innanzitutto per questioni intellettuali e culturali. il lavoro è lungo, ma l'intuizione ci sembra corretta. per quanto riguarda l'istruzione, sono d'accordo che non è sempre un buon "termometro" del merito. il problema non è solo italiano, ma ne sanno qualcosa anche all'estero e coinvolge non solo gli italiani, ma anche le minoranze. soddisfatti della risposta? probabilmente no. fa lo stesso. l'importante è ragionarci su. nicolò

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  2. Ciao e grazie per il commento,sono d'accordo quando dici che viviamo in un sistema "demeritocratico" ,o meglio,"peggiocratico".Per quanto riguarda la meritocrazia(o almeno ciò che si definisce con la stessa),essa è una parola,un concetto inflazionato e in molti casi "ambiguo".Sarei molto lieto di sapere la tua/vostra (in quanto "Forum della Meritocrazia") concezione della meritocrazia,grazie. Saluti.

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  3. Grazie, sul sito www.forumdellameritocrazia.it trovi tanti scritti. Puoi leggere i libri di Roger abravanel, che immagino conosci già . Concordo anche con una parte di argomenti dell'ultimo libro di Carlo barone. Sentiamoci . Nicolo

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