Di Stella Spinelli
Ollanta Humala, in 136 giorni di governo ha prodotto quello che Oscar Ugarteche – economista peruviano dell’ Instituto de Investigaciones Económicas de la Unam, Messico, presidente dell’agenzia di stampa Alai, nonché coordinatore dell’Observatorio Económico de América Latina (Obela) -
ha definito “un massacro politico”. Ha infatti lasciato per strada
tutti coloro che lo hanno costruito come candidato, che gli hanno
scritto i discorsi e che gli hanno pagato la campagna elettorale. Senza
un briciolo di riconoscenza verso chi ha lavorato duramente. Sì
perché costruire un candidato presidenziale costa soldi e fatica a
molta gente, e chi si è impegnato per Humala lo ha fatto compiendo una
sorta di “atto di fede politica” convinto di poter cambiare la storia.
“Tanti giovani hanno lavorato sugli scettici della politica
per farli votare a sinistra, in vista di un compromesso nuovo del
potere con la società. Compromesso che in Perù era andato perdendosi in
tante decadi di lotte stroncate”, ha spiegato Ugarteche. Così il paese è
tornato a credere nella bipartizione ideologica e nella divisione netta
fra destra/sinistra, alla quale sono stati rispettivamente associati
concetti contrapposti quali politiche estrattive/coscienza ambientale;
democrazia elettorale/democrazia partecipativa; concentrazione di
ricchezza in nome dei mercati/redistribuzione equa delle entrate;
esoneri tributari/più tasse ai ricchi; status quo/lotta al razzismo e
alle discriminazioni. Il tutto inserito in “una lotta di classe sempre
più complessa, che va ben oltre la contrapposizione guadagni/salari,
unicamente perché in gioco c’è il futuro stesso del pianeta”. Eppure
anche stavolta qualcosa non è andato come la maggioranza sperava. E ogni
speranza è andata tradita in un battito di ali.
Era
già una pratica di molti presidenti, sindaci e governatori – con o
senza partito di sinistra -, quella di, una volta eletti, collocarsi al
centro, accomodandosi con il potere contro il quale avevano lottato in
campagna elettorale. Ma questa volta i peruviani credevano che tutto
fosse diverso. Mai avrebbero immaginato che a ingrassare le fila del
club dei transfughi sarebbe stato proprio Ollanta Humala. “Per il paese,
un governo di sinistra avrebbe significato il consolidamento del
progetto sudamericano. E invece, anche stavolta, la virata peruviana,
alla quale siamo abituati dall’elezione di Alberto Fujimori nel 1990,
c’è stata ed è stata più brusca che mai. Nel ’90 Fujimori impiegò due
anni per buttar fuori dal governo tutti gli uomini progressisti di cui
si era circondato in campagna elettorale e ruppe ogni alleanza nel ’92
con l’auto-golpe. Tutto in ventiquattro mesi. Un’eternità, se paragonato
a quanto ci ha messo Humala, che in 136 giorni ha fatto piazza pulita
di tutti coloro che lo hanno portato alla vittoria. Adesso, ciò che gli
resta sono solo le alleanze politiche, con le quali i rapporti si fanno
ogni giorno più complicati”. E se anche i compagni del gruppo
parlamentare se ne andranno, perché defraudati, Humala si ritroverà a
governare con Fujimori
(figlia) e il suo partito, Apra. La destra più destra che si possa
pensare. Con conseguenze facilmente ipotizzabili. A iniziare
dall’indulto per Fujimori
padre, accusato di delitti di lesa umanità, per finire con il
boicottaggio della commissione che indaga sugli atti di corruzione del
regime di Alan García Pérez.
Il massacro politico delle figure più illuminate del suo governo
Humala lo ha iniziato il 10 dicembre, quando ha defenestrato con atto
presidenziale 11 dei suoi 17 ministri. Primo fra tutto, il premier, che
in quel momento era impegnato in una negoziazione con la popolazione del Cajamarca scesa in strada per protestare contro il progetto aurifero
dell’ennesima multinazionale. Una presa di posizione chiara quella del
presidente, che dopo aver tolto i poteri al primo ministro troppo
disponibile ad ascoltare le ragioni della gente, ha decretato lo stato
di emergenza sull’intera area coinvolta nella mobilitazione cittadina e
incarcerato i responsabili politici del movimento, giunti a Lima per
cercare una soluzione pacifica al conflitto. Nessuna coscienza
ambientale, dunque, per il “presidente di sinistra”, che ha invece
difeso la politica estrattiva allo stesso modo di ciascuno dei suoi
predecessori “di destra”.
Niente di nuovo neppure nei rapporti con gli Stati Uniti, che
continuano ad avere in Perù un alto numero di basi militari e nel
governo di Lima un amico fedele. Tanto che, un mese dopo essere stato
eletto, Humala ha ricevuto per il paese un incremento dei soldi previsti
dal programma di cooperazione statunitense (da 230 a 293 milioni di
dollari). “Questo significa che anche il Perù di oggi – precisa
l’economista – si riafferma alleato di Washington, al pari di Colombia,
Cile e Messico, e che il cosiddetto Arco del Pacifico resta intatto
nelle mani degli Usa”. Niente multilateralismo tanto sbandierato in
campagna elettorale, dunque, né tanto meno niente rafforzamento delle
alleanze sudamericane.
Nessuna novità nemmeno in politica interna ed economica.
Il Perù ha dunque un regime politico molto fragile, eletto con un
sentimento e governato con il sentimento contrario. La metà della
popolazione ha eletto un altro presidente rispetto a quello che si è poi
rivelato e potrebbe esigere di essere ascoltata. A breve. Ormai anche
in Perù gli analfabeti sono quasi scomparsi e la coscienza cittadina
cresce, specialmente quando la ricchezza mineraria continua a venire
estratta e in cambio si danno solo veleno e contaminazione.
Da E-il mensile
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