Oggi
non sono più molti gli uomini di sinistra disposti ad accusare la
democrazia di essere una procedura di classe inventata dalla borghesia
per disarmare e addomesticare il proletariato, come sosteneva Karl Marx,
né gli uomini di destra disposti a sostenere, così come facevano i
controrivoluzionari, che essa si riduce alla “legge del numero” e al
“regno degli incompetenti” (senza peraltro mai essere capaci di dire
esattamente che cosa desidererebbero mettere al suo posto). Fatte salve
le rare eccezioni, ai nostri giorni la contrapposizione non è più tra
sostenitori e avversari della democrazia, ma esclusivamente tra suoi
sostenitori, in nome dei diversi modi di concepirla.
La
democrazia non mira a determinare la verità. È soltanto il regime che
fa risiedere la legittimità politica nel potere sovrano del popolo. Il
che implica prima di tutto che esista un popolo. Nel senso politico del
termine, un popolo si definisce come una comunità di cittadini dotati
politicamente delle medesime capacità e legati da una regola comune
all’interno di un determinato spazio pubblico. Fondandosi sul popolo, la
democrazia è inoltre il regime che consente a tutti i cittadini di
partecipare alla vita pubblica, che afferma che essi sono tutti chiamati
ad occuparsi degli affari comuni. Spingiamoci un po’ oltre: essa non
si limita a proclamare il potere (kratos) del pubblico, ma ha
la vocazione a mettere il popolo al potere, a permettere al popolo di
esercitare in prima persona il potere.
L’homo democraticus non è un individuo, ma un cittadino. La democrazia greca fu sin dall’inizio una democrazia di cittadini (politai), cioè una democrazia comunitaria, non una società di individui, cioè di esseri singoli (idiotai,
“idioti” nel senso proprio della parola). Individualismo e democrazia
sono, da questo punto di vista, originariamente incompatibili. La
democrazia richiama uno spazio pubblico di deliberazione e di decisione,
che è anche uno spazio di educazione comunitaria per l’uomo,
considerato per natura un essere politico e sociale. Infine, quando si
dice che la democrazia consente al maggior numero di persone di
partecipare agli affari pubblici, si deve tenere a mente che, in tutte
le società, quel maggior numero comprende sempre una maggioranza di
cittadini appartenenti alle classi più modeste. Da questo punto di
vista, una politica veramente democratica deve essere considerata, se
non come quella che fa prevalere gli interessi dei più poveri, almeno
come un “correttivo al potere del denaro”, come ha scritto Costanzo
Preve.
Tuttavia,
più si è imposta, più la democrazia si è snaturata. Prova ne sia che
il “popolo sovrano” è ormai il primo a prenderne le distanze. In
Francia, l’astensione e il voto di protesta sono stati in un primo
momento gli strumenti per esprimere un’insoddisfazione circa la maniera
in cui funzionava la democrazia. In seguito, il voto di protesta ha
ceduto il passo al voto di disturbo, che mira deliberatamente a
bloccare il sistema. Si è così costituita quella che il politologo
Dominique Reynié chiama la “dissidenza elettorale”, vasto agglomerato
di scontenti e delusi. In occasione dell’elezione presidenziale del
2002, questa dissidenza rappresentava già il 51% degli iscritti alle
liste elettorali, contro il 19,4% del 1974. Alle legislative
successive, ha toccato il 55,8%. Ebbene: i principali fornitori della
dissidenza elettorale provengono dalle classi popolari, il che
significa che l’inesistenza civica o l’invisibilità elettorale sono
espressione in primo luogo di quegli stessi ambienti ai quali la
democrazia aveva conferito il diritto “sovrano” di parlare. Che cosa
avverrà quando questa dissidenza sceglierà di esprimersi al di fuori
del campo elettorale?
Nel
contempo, da anni stiamo assistendo, ma questa volta dall’alto, a uno
snaturamento della democrazia da parte di una Nuova Classe
politico-mediale che, per salvaguardare i propri privilegi, auspica di
restringerne quanto più possibile la portata. Jacques Rancière non esita
a parlare di un “nuovo odio della democrazia”, un odio che potrebbe
“riassumersi in una semplice tesi: non vi è che un’unica buona
democrazia, quella che reprime la catastrofe della civiltà democratica”.
L’idea dominante è che non bisogna abusare della democrazia,
altrimenti si rischia di uscire dallo stato di cose esistente.
Uno
dei mezzi per snaturare la democrazia consiste nel far dimenticare che
essa, prima di essere una forma di società, è una forma di regime
politico. Un altro mezzo consiste nel presentare come intrinsecamente
democratici alcune caratteristiche societarie, come la ricerca di un
accrescimento illimitato di beni e merci, che di fatto sono realtà
inerenti alla logica dell’economia capitalista: “democratizzare”
significherebbe produrre e vendere a strati sempre più ampi prodotti dal
forte valore aggiunto. Un terzo modo consiste nel tentare di creare le
condizioni di una riproduzione in forme identiche del disordine
costituito, consacrato come unico ordine veramente possibile, come
qualcosa che dipende da una necessità storica dinanzi alla quale
chiunque, per “realismo”, dovrebbe inchinarsi (“Il realismo è il
buonsenso dei mascalzoni”, diceva Bernanos). È l’ideale della governance,
che potrebbe essere definita come una maniera di rendere non
democratica una società democratica senza per questo combattere
frontalmente la democrazia: non si sopprime formalmente la democrazia,
ma si mette in piedi un sistema che consenta di governare senza il
popolo, e se necessario contro di esso.
La governance,
che si esercita oggi a tutti i livelli, mira a porre la politica alle
dipendenze dell’economia per il tramite di una “società civile”
trasformata in semplice mercato. Essa appare perciò, per usare le parole
di Guy Hermet, come un “modo di contenere la sovranità popolare”. La
democrazia, svuotata del suo contenuto, si trasforma in una democrazia
di mercato, spoliticizzata, neutralizzata, affidata agli esperti e
sottratta ai cittadini. La governance aspira a una società
mondiale unica, chiamata a durare in eterno, giacché la temporalità
stessa viene ad essere reificata. Spoliticizzare, neutralizzare la
politica, significa infatti collocarne le poste in luoghi che sono dei
non-luoghi. L’obiettivo è sopprimere tutte le pesantezze che potrebbero
fare da ostacolo alla mancanza di limiti della Forma-Capitale. Diceva
Jean Baudrillard: “Il colpo di forza del capitale consiste nell’aver
infeudato tutto all’economia”. L’intera società sarebbe così messa a
servizio del capitalismo liberale.
Non si tratta, a questo proposito, di sviluppare una teoria cospirativa sui “padroni del mondo”. La governance
non è altro che il risultato logico dell’evoluzione sistemica delle
società alla quale stiamo assistendo da decenni. Né si tratta di
rappresentare il popolo come un essere “naturalmente buono”, alienato e
corrotto da dei cattivi. Il popolo non è privo di difetti. Ma si può
pensare, con Machiavelli e Spinoza, che i difetti del volgo non si
distinguono sostanzialmente da quelli dei principi – e che, nella
storia, sono state soprattutto le élites a tradire. Come ha scritto
Simone Weil, “il vero spirito del 1789 consiste nel pensare non che una
cosa è giusta perché il popolo la vuole, ma che a certe condizioni il
volere del popolo ha più probabilità di ogni altro volere di essere
conforme alla giustizia”.
Della
Repubblica di Weimar, si è potuto dire che era una democrazia senza
democratici. Noi oggi viviamo in società oligarchiche nelle quali tutti
sono democratici, ma non vi è più democrazia.
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Da Arianna Editrice
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