Perdonerete se oggi, per un giorno, non parleremo di Trump, di referendum,della post-verità , o degli stracci che volano tra Vincenzo De Luca e Rosy Bindi. Il fatto è che c’è molto altro là fuori e ad asserragliarsi tra le pieghe delle prime cinque pagine dei quotidiani, e c’è il rischio di perderselo.
Ad esempio: a Roma, nella crepuscolare Capitale a cavallo tra le giunte Marino e Raggi, c’è uno dei più grandi acceleratori d’impresa d’Europa. Si chiama Luiss Enlabs e sta al terzo piano della Stazione Termini, sopra ai treni che partono.Dentro questo acceleratore, ieri, c’è stato quello che nel gergo del mondo delle startup si chiama Investor Day. Per chi non ne sa molto: l’acceleratore, che di mestiere si occupa di offrire alle startup un po’ di soldi e un piano di business per affrontare la competizione, sceglie alcune startup che già hanno avuto buoni riscontri sul mercato e le presenta a un network di investitori selezionati che dovrebbero garantire loro i finanziamenti per un piano di crescita di dodici mesi.
A questo giro ne sono state selezionate sei. E vale la pena raccontare quel che fanno. C’è Ambiens VR, che prende i progetti di architetti e designer e li trasforma in vere e proprie realtà virtuali da esplorare con l’apposito visore, affinché il cliente possa capire cosa sta comprando ed eventualmente adattarlo meglio alle sue esigenze: «La realtà virtuale moltiplica per otto volte il ricordo di un prodotto e per due volte la propensione all’acquisto», spiega Ennio Pirolo, il giovane titolare. Lavoro simile quello di Remoria VR, che sviluppa input device per la realtà virtuale a misura di smartphone.
Poi c’è Babaiola, una startup che si occupa di suggerire itinerari di viaggio e intrattenimento per il mondo Lgbt: località , alberghi, eventi, voli scelti in funzione del loro essere gay friendly: «Ãˆ una comunità che in Europa conta 23 milioni di persone, che in media spendono il 38% dei loro omologhi viaggiatori omosessuali», spiega il fondatore. Un’utenza che, se profilata e attratta, vale oro per i nostri esercizi turistici e commerciali.
Sempre a proposito di turismo, c’è pure Manet, che offre agli alberghi uno smartphone per i turisti sviluppato con un importante costruttore di telefoni cellulari, con connessione 4G, mappe e guide turistiche, nonché chiamate internazionali gratuite e illimitate. L’obiettivo? Sostituire i telefoni nelle stanze. E offre agli alberghi, soprattutto i grandi, un mare di big data sulle abitudini della loro clientela.
E ancora: c’è Direttoo, una app che mette in connessione i ristoratori con i produttori alimentari, per fare concorrenza a Metro e affini: «Oggi i ristoratori comprano 20 miliardi di euro di cibo all’anno - spiegano -. Molti di loro sono giovani visto che la metà dei nuovi ristoranti degli ultimi anni sono stati aperti da under 35». E, se proprio non volete comprare in Italia, c’è pure Yakkio, un bot che aiuta a comprare prodotti in Cina, aiutando a scegliere i migliori.
Secondo Diego Ciulli di Google, intervenuto all’investor Day, internet e la startup economy sembrano fatte apposta per il made in Italy. Perché aiutano gli imprenditori italiani tradizionali ad aprirsi al digitale, perché consentono alle piattaforme come Ebay e Amazon di aprirsi ai produttori, perché spingono alla nascita di nuove imprese che facciano da cerniera tra quei due mondi.
Pensateci: ognuna di quelle startup è in grado di far fare alle imprese del settore cui si rivolge un salto competitivo maggiore di qualunque politica industriale. Far nascere sempre più startup e metterle in connessione con l’impresa tradizionale dovrebbe diventare un’ossessione, per chi si occupa di economia, sia esso il
governo, il mondo universitario, il credito e la finanza. Perché alle imprese italiane, quelle tradizionali, non mancano né i mercati, né le tecnologie per agganciarli, né i soldi (sempre meno) per usufruire di tali tecnologie.
Manca la cultura dell’innovazione in grado di far far loro quel passo in più.Una cultura che può venire solo da fuori, dai giovani startupper. E che, se ben incanalata, potrebbe davvero permettere al made in Italy di invadere i mercati globali coi suoi prodotti ad alto tasso di qualità e personalizzazione. Pensiamoci: a volte basta veramente poco per tirarsi fuori dai guai. E più che un Sì, è una startup.
FONTE:http://www.linkiesta.it/it/article/2016/11/18/basta-una-startup-per-salvare-il-made-in-italy/32426/
governo, il mondo universitario, il credito e la finanza. Perché alle imprese italiane, quelle tradizionali, non mancano né i mercati, né le tecnologie per agganciarli, né i soldi (sempre meno) per usufruire di tali tecnologie.
Manca la cultura dell’innovazione in grado di far far loro quel passo in più.Una cultura che può venire solo da fuori, dai giovani startupper. E che, se ben incanalata, potrebbe davvero permettere al made in Italy di invadere i mercati globali coi suoi prodotti ad alto tasso di qualità e personalizzazione. Pensiamoci: a volte basta veramente poco per tirarsi fuori dai guai. E più che un Sì, è una startup.
FONTE:http://www.linkiesta.it/it/article/2016/11/18/basta-una-startup-per-salvare-il-made-in-italy/32426/
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