Di Michele Giorgio
Tratto da www.nena-news.globalist.it
I tabelloni pubblicitari elettronici nelle strade di Manama fanno il
conto alla rovescia. «Meno 18 giorni… meno 17 giorni». Si riferiscono al
big event, il Gran Premio di Formula Uno di fine aprile, fiore
all’occhiello della monarchia assoluta (sunnita) di Hamad bin Isa al
Khalifa.
Gran parte della popolazione fa un altro conto alla rovescia, ben più
drammatico, e sgomenta si domanda quanti giorni di vita ha ancora
Abdelhadi al Khawaja, il fondatore del Gulf Centre for Human Rights,
condannato all’ergastolo «per aver complottato contro la monarchia»,
giunto al 58esimo giorno di sciopero della fame. Le sue condizioni sono
critiche eppure è intenzionato a continuare la sua battaglia anche, fa
sapere, a costo della vita.
Nessuna intenzione di liberarlo
«Il suo avvocato mi ha detto che è molto debole – riferisce
Reem Khalifa, opinionista del quotidiano indipendente al Wasat e
attivista dei diritti umani – il lungo digiuno rischia di danneggiare
irreparabilmente alcuni organi vitali». Le autorità , consapevoli che al
Khawaja potrebbe entrare in coma, lo hanno trasferito nella clinica del
ministero dell’interno. Ma continuano a tacere e, più di tutto, non
mostrano alcuna intenzione di liberare il prigioniero di coscienza. «Mio
padre vuole la libertà , non ha commesso alcun crimine, ha solo
denunciato la negazione di diritti fondamentali. Ci ripete che è meglio
la morte che rimanere vivo in carcere», spiega da parte sua Maryam al
Khawaja, la figlia dell’attivista bahranita.
Gli appelli lanciati dai centri per i diritti umani, incluso Amnesty, e
diretti anche al governo di Copenaghen (al-Khawaja ha la doppia
cittadinanza, bahranita e danese), continuano a cadere nel vuoto
nonostante il caso sia da diversi giorni anche su twitter e facebook.
«Sono stati allertati i diplomatici danesi in Arabia saudita (la
Danimarca non ha un’ambascata a Manana) che hanno fatto qualche passo ma
è ancora troppo poco per salvare al Khawaja dalla morte», spiega Reem
Khalifa. La sorte dell’attivista dei diritti umani non riscuote alcun
interesse in Occidente dove gli occhi sono puntati solo sulla grave
crisi siriana. A cominciare da quelli degli Stati Uniti che in Bahrain
hanno la base della V Flotta, strategica per tenere sotto tiro il
«nemico» iraniano. E se Washington finge di non vedere la protesta
contro l’alleato re Hamad, i paesi del Golfo manovrano dietro le quinte
per nascondere la repressione in atto in Bahrain. A cominciare
dall’Arabia saudita, intervenuta un anno fa, con soldati e mezzi
blindati, in aiuto delle forze di polizia bahranite per spazzare via
l’accampamento di tende degli attivisti in Piazza della Perla a Manama.
Il re saudita Abdallah (o meglio il principe ereditario Nayef che di
fatto già governa il regno), assieme agli altri petromonarchi del Golfo,
hanno imposto che il recente summit della Lega araba a Baghdad non
prendesse in esame la protesta popolare in Bahrain. «In Iraq i leader
arabi (i pochi presenti, ndr) hanno parlato solo di Siria,
dimenticandoci del tutto. Siamo vittime degli interessi regionali e del
disinteresse internazionale», nota con amarezza Reem Khalifa.
Decine di oppositori uccisi
Dall’inizio delle manifestazioni, pacifiche, il 14 febbraio
2011 in Piazza della Perla, sono stati uccisi decine di bahraniti, non
pochi dei quali sarebbero stati soffocati dai gas lacrimogeni che le
forze di polizia lanciano in luoghi chiusi e anche nelle abitazioni. Un
bilancio ufficiale riferisce di 35 morti ma gli attivisti bahraniti
dicono che sono almeno 85. Alcuni, dicono sarebbero stati uccisi da
uomini armati vicini al regime. L’ultimo è Ahmad Ismail, un citizen
journalist colpito qualche sera fa da sconosciuti che gli hanno sparato
da un’automobile in corsa. Agenti delle forze di sicurezza o vigilantes
sunniti, dicono gli attivisti della protesta. La monarchia infatti è
riuscita a mobilitare una parte della minoranza sunnita contro la
maggioranza sciita che chiede diritti e riforme, sostenendo che il
«caos» nel paese sarebbe frutto di un «complotto iraniano». I servizi di
sicurezza un anno fa hanno arrestato un po’ tutti i leader delle forze
di opposizione, poi condannati a dure pene detentive. Su questi casi il
prossimo 23 aprile si esprimerà la Corte di Cassazione ma la speranza di
un annullamento delle sentenze è minima.
Protetta da Riyadh, coperta dal silenzio americano, la monarchia
bahranita dorme sonni tranquilli e sogna il Gran Premio per lucidare la
sua immagine opaca. «La corsa non può avere luogo mentre Abdulhadi
al-Khawaja muore in prigione», ha avvertito Mary Lawlor, direttrice di
Front Line Defenders a Manama.
Per Reem Khalifa la gara di Formula Uno potrebbe rivelarsi un boomerang
per il regime. «Saranno concessi visti d’ingresso a tanti giornalisti
stranieri – dice la giornalista – e potete essere certi che gli
attivisti non mancheranno l’occasione di avvicinarli e spingerli a
raccontare ciò che accade nel nostro paese».
Fonte:Megafono Quotidiano
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