Nigeria. Riciclaggio e finanza. La denuncia di Dotun Oloko

apr 8, 2012 0 comments

Di Luca Manes
CRBM
Dotun Oloko è un cittadino nigeriano che ha denunciato alle autorità competenti in Europa come, nel suo Paese, unprivate equity finanziato dalla cooperazione occidentale investiva in compagnie dedite al riciclaggio di denaro per un importante politico nigeriano. Facendo ciò si è imbattuto nel classico muro di gomma e ha subito pericolose intrusioni nella sua sfera privata.
Per farci raccontare la sua storia lo abbiamo incontrato a Londra. In possesso di un passaporto britannico, Oloko, infatti, vive in Inghilterra da quando nel 2008 è scoppiato il caso che lo vede coinvolto in prima persona.
Cominciamo dall’inizio, dalle prime scoperte sul conto del private equity ECP.
All’epoca lavoravo nel mondo della comunicazione. Dopo aver prodotto alcuni film e video girati in Nigeria, avevo deciso di realizzare in prima persona un documentario sulla corruzione. Ben presto scoprii che l’appena istituita Commissione sui Crimini Finanziari stava conducendo delle indagini sul potentissimo governatore del Delta State, James Ibori. Alcune società collegate a quest’ultimo erano finanziate dal private equity Emerging Capital Partners (ECP) che riceveva fondi da vari governi occidentali e dalla Banca europea per gli investimenti.
A questo punto che cosa hai deciso di fare?
Visto che ho anche la cittadinanza britannica e che tra i finanziatori dell’ECP c’era la cooperazione inglese tramite la Dfid (Department for International Development), ho deciso di rivolgermi a loro. Era la fine del 2008, ma per mesi non ho ricevuto alcuna risposta. Peggio ancora, con me si sono fatti vivi dalla Nigeria dei “personaggi” che erano a conoscenza della mia denuncia, evidentemente perché il Dfid aveva passato tutto l’incartamento alla ECP. Un atto gravissimo, visto che in teoria avrebbero dovuto garantirmi l’anonimato…
Nonostante ciò non ti sei dato per vinto e hai provato a contattare la BEI.
Sì, questa volta sotto pseudonimo. Ma nemmeno dalla BEI ho avuto alcun riscontro, almeno fin quando non ho deciso di coinvolgere le realtà della società civile che compongono il network europeo CounterBalance e la Ong inglese The Cornerhouse. Solo grazie al loro intervento all’inizio del 2010 sono riuscito ad avere finalmente un incontro con rappresentanti della Banca che, insieme alla cooperazione inglese, all’ECP ha garantito oltre 40 milioni di dollari di soldi dei contribuenti europei.
Come è andata?
A tratti è stato paradossale. Il rappresentante della BEI sembrava il portavoce della ECP, che difendeva a spada tratta. Ha subito chiarito che erano stati svolti degli accertamenti e che non era stato riscontrato nulla di anomalo. Ha addirittura ammesso che l’ECP sapeva di me, giustificandosi con il fatto che la compagnia doveva essere a conoscenza di chi lo accusava. Fortuna ha voluto che fossero presenti alcuni esponenti dell’Olaf (l’Ufficio Europeo per la Lotta Antifrode), i quali, quando hanno potuto ascoltare le mie ragioni, si sono subito attivati. Ora hanno aperto un’indagine formale, che sta andando avanti.
Intanto tu sei dovuto rimanere in Inghilterra…
Certo, in Nigeria le pressioni su famigliari, amici ed ex colleghi dei lavoro per avere accesso a informazioni sul mio conto stavano aumentando. Se dopo la denuncia fossi dovuto tornare in Nigeria perché sprovvisto della doppia nazionalità, ora non starei qui a raccontare la mia storia, molto probabilmente sarei morto. Come se non bastasse, l’ECP ha messo sotto contratto una compagnia di investigazioni private, la Control Risk, che ha svolto indagini sul mio passato, pedinato me e tutta la mia famiglia qui in Inghilterra. Non si sono fatti scrupoli nemmeno a fotografare i miei figli mentre stavano a scuola. Gli inglesi, la BEI, ma anche la cooperazione svedese, l’agenzia di credito all’export degli Stati Uniti, tutti quelli coinvolti in questa storia sapevano delle attività della Control Risk, in barba alle convenzioni anti-corruzione internazionali che invece garantiscono la protezione e la tutela degli informatori.
Quando tutto è diventato di dominio pubblico perché del tuo caso ha parlato la BBC, come ha reagito la cooperazione inglese?
Hanno chiesto scusa, ma solo perché è uscito il servizio su News Night e altri media ne hanno dato ampio risalto. Prima mi avevano espressamente detto che, visto che erano trascorsi oltre due anni dalla mia denuncia, era giunto il momento metterci una pietra sopra.
Pensi che adesso abbiano imparato la lezione?
No, assolutamente no. La loro condotta non è mutata affatto. Continuano a condurre affari con entità come la ECP o soggetti come Ibori. Anzi, sono proprio queste istituzioni internazionali come la Dfid o la BEI che creano il contesto, l’ambiente adatto per questo tipo di operazioni. A rimetterci sono i cittadini europei, i loro soldi sono stati impiegati e continuano a essere impiegati per operazioni illecite. Quando ho presentato la prima denuncia, pensavo che realtà come la BEI applicassero una politica di tolleranza zero nei confronti della corruzione. Come sono stato ingenuo!
Nel frattempo l’ex governatore del Delta State James Ibori, dopo essere stato arrestato a Dubai nel 2010 dalla polizia inglese, al processo nei suoi confronti ha ammesso di aver rubato 250 milioni di dollari, “ripuliti” nella City tramite alcune società offshore, come quelle che hai esaminato tu.
Ibori a suo tempo è stato “scaricato” dal suo nemico politico e attuale presidente della Nigeria Goodluck Jonathan. Attorno gli è stata fatta terra bruciata e ha dovuto lasciare il Paese, quindi in questo caso la lotta alla corruzione conta fino a un certo punto. È però indubbio che in Nigeria stia crescendo la consapevolezza che la corruzione costituisce un problema molto serio e ci sono persone, come per esempio alla Commissione sui Crimini Finanziari, che si stanno spendendo per estirpare questo cancro. Ma le istituzioni del Nord del mondo ci devono dare una mano, da loro deve partire una seria inversione di rotta che, come ti dicevo, non mi sembra esserci.

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