Gli assassini della Casa Bianca

giu 6, 2012 0 comments
Di Michele Paris
Un agghiacciante articolo apparso settimana scorsa sul New York Times ha descritto esaustivamente le modalità con cui la Casa Bianca autorizza l’assassinio mirato di presunti terroristi islamici in paesi come Pakistan, Yemen e Somalia. Il lungo resoconto del quotidiano americano fa luce su un programma palesemente illegale e condotto nella quasi totale segretezza, nel quale il presidente Obama si assume l’intera responsabilità di decidere della vita e della morte di individui che quasi mai rappresentano una reale minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti.
Con cadenza settimanale, un centinaio di membri dell’apparato anti-terrorismo americano si riuniscono in videoconferenza per valutare le biografie di sospettati di terrorismo che vengono poi raccomandati al presidente per entrare in una apposita “kill list”. Questo processo segreto di “nomination”, scrive macabramente il Times, si risolve nella decisione finale di Obama, il quale stabilisce personalmente chi debba essere assassinato con un’incursione dei droni impiegati oltreoceano.
Secondo le parole del consigliere per la sicurezza nazionale, Thomas Donilon, il presidente “è determinato nello stabilire fin dove debbano arrivare queste operazioni”, cioè in sostanza si attribuisce il potere di uccidere chiunque sia sospettato di far parte di organizzazioni terroristiche e si trovi sul territorio di paesi sovrani non in guerra con gli USA, senza passare attraverso un procedimento legale. Nelle sue decisioni, Obama è costantemente assistito dal capo dei consiglieri per l’anti-terrorismo, John Brennan, veterano della CIA profondamente implicato nelle torture dei detenuti durante l’amministrazione Bush.
I reporter del Times, Jo Becker e Scott Shane, hanno potuto contare su decine di interviste con esponenti del governo americano, alcuni dei quali descrivono quella che appare come un’evoluzione senza precedenti nella condotta di un presidente che, già docente di diritto costituzionale, è passato dalle promesse di chiudere Guantanamo e di porre fine agli eccessi che avevano caratterizzato i due mandati del suo predecessore all’approvazione senza battere ciglio di operazioni letali.
In seguito ad un bombardamento sferrato all’inizio del 2009 dai droni in Pakistan, che fece un elevato numero di vittime civili, la Casa Bianca emise una direttiva per chiedere maggiore precisione ai vertici della CIA. In realtà, il programma non sembra essere cambiato in maniera significativa. L’amministrazione Obama si è semplicemente limitata ad adottare un diverso metodo nel conteggio dei morti causati dai droni, considerando tutti i maschi adulti assassinati come “nemici in armi”, a meno che non emergano prove della loro innocenza, ovviamente dopo il loro decesso.
Secondo la logica dell’antiterrorismo USA, d’altra parte, tutte le persone che si trovano in un’area conosciuta per le attività terroristiche, o dove sono stati individuati operativi di Al-Qaeda, sono esse stesse militanti che meritano di essere eliminati sommariamente.
Una delle operazioni che secondo il Times ha maggiormente diviso l’amministrazione Obama è stata quella che ha portato all’uccisione di Baitullah Mehsud, leader dei Talebani del Pakistan le cui attività non rappresentavano una minaccia imminente per Washington, dal momento che erano rivolte in gran parte al governo di Islamabad. Obama, dietro insistenza delle autorità pakistane che volevano Mehsud morto, prese la decisione di eliminarlo poiché era una minaccia per il personale americano in Pakistan.
Inoltre, quando nell’agosto 2009 l’allora direttore della CIA, l’attuale Segretario alla Difesa Leon Panetta, informò Obama che il bersaglio era in vista, avvertì che un attacco avrebbe causato danni collaterali significativi, dal momento che Mehsud si trovava presso un’abitazione assieme alla moglie e ad alcuni familiari. Senza alcuno scrupolo, il presidente diede l’ordine di colpire, causando la morte dei civili innocenti presenti sul posto.
A dare un impulso decisivo al programma dei droni in Yemen fu poi il fallito attentato del giorno di Natale del 2009, quando un giovane nigeriano addestrato nel paese della penisola arabica cercò di fare esplodere un aereo diretto all’aeroporto di Detroit. La stagione delle stragi in Yemen sotto la direzione di Obama era peraltro già iniziata poco prima. Il 17 dicembre 2009, infatti, un’incursione aerea uccise, assieme al bersaglio stabilito, anche due intere famiglie del tutto innocenti, mentre le “cluster bombs” rimaste sul terreno fecero poco più tardi ulteriori vittime civili, provocando le violente proteste della popolazione locale.
Il nuovo giro di vite che la Casa Bianca avrebbe deciso dopo questi fatti non portò ad una maggiore cautela nell’uso dei droni, tanto che oggi il Pentagono può condurre attacchi in Yemen contro sospettati di cui non conosce nemmeno il nome.
I presunti “principi” a cui si ispirerebbe Obama nell’autorizzare gli assassini mirati, per il Times sono stati messi alla prova nella vicenda di Anwar al-Awlaki, il predicatore estremista con cittadinanza americana trasferitosi in Yemen. Secondo gli americani, Awlaki era coinvolto non solo nel già ricordato attentato del Natale 2009, ma anche nella sparatoria di Fort Hood del mese precedente, nella quale un maggiore dell’esercito USA uccise 13 persone.
Di fronte all’eventualità di uccidere un cittadino statunitense in un paese sovrano con un procedimento segreto e senza processo spinse Obama a chiedere il parere dell’Ufficio Legale del Dipartimento di Giustizia. Quest’ultimo, calpestando il dettato del Quinto Emendamento della Costituzione, stabilì in maniera sconcertante che la garanzia di un giusto processo per Awlaki poteva essere assicurata da una semplice deliberazione interna di un organo dell’esecutivo. Con questa copertura pseudo-legale, scrive il Times, il presidente democratico sostenne che il via libera all’assassinio di un sospetto con passaporto americano diventò “una decisione semplice”.
Lo scopo dell’articolo non è in ogni caso quello di smascherare uno degli aspetti più oscuri del governo degli Stati Uniti, ma sembra piuttosto essere stato realizzato con la collaborazione stessa dell’amministrazione Obama per propagandare un’immagine forte del presidente sulle questioni della sicurezza nazionale, prevenendo gli attacchi da destra dei repubblicani in campagna elettorale.
Il ritratto di Obama che ne esce è comunque quello di un presidente che appare perfettamente in sintonia con l’apparato militare e dell’intelligence a stelle e strisce, le cui politiche criminali intende portare avanti senza scrupoli o esitazioni. Tutto ciò nonostante la sua elezione nel 2008 sia stata dovuta in gran parte alla repulsione diffusa nel paese per gli abusi commessi sotto l’amministrazione Bush. Significativo nel delineare la personalità di Obama, a cui, va ricordato, nel 2009 è stato assegnato il Nobel per la Pace, è il commento del consigliere per la sicurezza nazionale, Thomas Donilon, che lo definisce perfettamente “a suo agio con l’uso della forza”.
Ancora più allarmante è però lo scenario politico americano che il Times contribuisce a descrivere. Dopo oltre un decennio di “guerra al terrore”, ogni organo dello stato dimostra un progressivo disinteresse, se non aperto disprezzo, per i più elementari diritti democratici.
L’autorità autoassegnatasi da Obama di decidere gli assassini mirati condotti dalla CIA e dal Pentagono sancisce infatti la legittimità di un programma criminale senza precedenti per un paese civile, con profonde e inquietanti implicazioni per gli Stati Uniti e non solo.
Una deriva quella raccontata dal New York Times che risulta ancora più preoccupante alla luce del sostanziale silenzio non solo dell’intera classe politica ma anche di intellettuali e commentatori liberal, da tempo ormai quasi interamente allineati alla causa dell’anti-terrorismo, così come della “guerra umanitaria”, e disposti ad accettare qualsiasi eccesso per assicurare la permanenza alla Casa Bianca di un presidente democratico.

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