L’auto-razzismo del popolo e della classe dirigente italiana: la politica come il cabaret

apr 18, 2015 0 comments
Di Andrea Giannini
L’autoironia è una delle forme d’umorismo più apprezzata ai giorni nostri. Dimostrandomi autoironico appaio subito simpatico, genuino, estroverso, a posto con me stesso e con i miei difetti, e forse persino intelligente; ma soprattutto non faccio battute sulle altre persone, le quali  potrebbero anche non gradire.
È per questo meccanismo che il mondo della satira oggi investe moltissimo su questo filone. Dovendosi destreggiare tra il politically correct e i politici veri e propri, molto suscettibili e subito pronti a squalificare il comico di turno accusandolo di contiguità con il partito rivale, potrebbe avere il serio problema di non riuscire a trovare qualcuno o qualcosa su cui scherzare, se non esistesse una categoria che sicuramente non se la prende: gli italiani.
Ridere degli italiani piace, e ci piace. Quasi ci compiaciamo, in fondo, del fatto di essere quelli strani, quelli originali, quelli fuori dal coro. Inoltre questo genere ha una gloriosa tradizione alle spalle: da Fellini a Elio e Le Storie Tese, da Sordi a Fedez, gli italiani hanno sempre riso degli italiani, nei casi migliori addirittura riuscendo a dipingerne pregi e difetti con realismo e poesia.
Non può stupire, pertanto, che oggi questa tradizione sia ripresa non solo da comici come Maurizio Crozza, che addirittura a questo umorismo si è ispirato per il nome del suo programma, ma anche fuori dal cabaret, in contesti che dovrebbero essere decisamente più seri, da politici e giornalisti.
È ormai usanza diffusa e accettata riferirsi all’Italia e agli italiani come a qualcosa di eccezionale,  fuori dalla media, qualcosa di diverso dal resto del mondo. Gli italiani fanno, dicono e pensano cose che nel mondo civilizzato non si farebbero, non si penserebbero e non si direbbero. Basta far caso a quante volte compaiono nel linguaggio politico espressioni come: “solo qui da noi”, “adeguarsi”, “nel resto d’Europa”.
Ultimamente, per via delle difficoltà della crisi economica, questo vizio di vederci sempre come diversi e speciali tende a sconfinare nel pessimismo. Il vero problema dell’Italia sono gli italiani: siamo noi che non sappiamo o che non vogliamo cambiare. Siamo indisciplinati, pigri, corrotti, evasori e mafiosi. Siamo incorreggibili e nessuna ricetta ci renderà migliori. È così che si finisce, insomma, per dare ragione a Benito Mussolini e al suo famoso: “governare gli italiani non è difficile: è inutile”.
Ma è davvero così? È vero che il problema, in fondo in fondo, siamo noi stessi? Gli italiani sono davvero, innanzitutto, un fallimento come popolo?
Nonostante il suo indubbio “fascino”, la realtà è che questa non è un’argomentazione. Se dovessimo prenderla seriamente, infatti, dovremmo presupporre che esista qualcosa come lo “spirito di un popolo”, che esso sia definito e stabile, passando di generazione in generazione tramite il DNA o attraverso l’aria che si respira nella penisola, e che soprattutto esso sia talmente forte da essere causa di tutte le altre manifestazioni sociali. Leggi, guerre, istituzioni, scuola, cultura, arte e tutte le alterne fortune a cui una collettività può andare incontro non influenzerebbero in modo sostanziale la collettività stessa; bensì sarebbe il “carattere” della società, la sua anima profonda, a determinare tutte le altre cose.
Si tratta, come si vede, non solo di un’interpretazione alquanto problematica, perché nega l’influenza di aspetti importantissimi della vita sociale, direzionando arbitrariamente causa e effetto; ma si tratta anche di una concezione intrinsecamente razzista. Se si può dire che i problemi dell’Italia dipendono dagli italiani, allora si può dire anche che la schiavitù dei neri dipendeva dal “loro essere inferiori”: il livello basso dell’argomentazione è identico.
Oggi siamo abituati a pensare che sia razzista chi se la prende con gli immigrati (che al più potrebbe essere definito “xenofobo”); quando in realtà “razzista” è semplicemente colui che crede debbano esistere differenze di valore tra le razze umane.
L’auto-razzismo trabocca letteralmente nelle parole della nostra classe dirigente. Gli altri sono sempre più virtuosi, un esempio da imitare, un modello da seguire: noi siamo sempre al fondo delle classifiche internazionali, oggetto di ironia e riprovazione, zimbello del mondo. Non sfuggirà quanto questa retorica contribuisce a rafforzare nelle persone la percezione di appartenere ad un insieme sociale irrimediabilmente marcio, scoraggiando i volenterosi e incentivando a urlare “ognuno per sé”.
Nessuno nega che gli italiani abbiano il loro carattere e i loro problemi specifici: ma è molto difficile dimostrare che sia il primo a generare i secondi, o che, banalmente, gli altri paesi non abbiano anch’essi i loro problemi. Manca totalmente, nelle continue denunce delle mille magagne di casa nostra, una sintesi equilibrata del reale peso relativo di queste criticità, che non sono tutte uguali. Scandalo scaccia scandalo: ma cosa davvero è prioritario? su cosa occorre concentrarsi? può un problema dipendere in realtà da un altro problema?
Nell’assoluta carenza di una spiegazione organica complessiva, non stupisce che ricette politiche basate su qualificazioni morali (l’onestà, il cambiamento, la sobrietà) o generiche “lotte alla povertà”, “lotte alla corruzione” e “lotte alle mafie” continuino a fare la fine delle grida manzoniane.

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