Il dramma degli omosessuali e delle lesbiche in Africa raccontato in un libro di Sabrina Avakian

giu 16, 2015 0 comments
















Ade è nigeriana ed è lesbica. Una colpa gravissima, per la quale la sua famiglia ha deciso di venderla a un’organizzazione criminale. Con la falsa promessa di un lavoro, Ade è finita sul marciapiede a Torino. Una punizione crudele: il suo corpo, che desiderava le donne, è ora violato in continuazione da uomini.
La vicenda di Ade è una delle tante storie drammatiche raccolte da Sabrina Avakian nel saggio “Storie nascoste – Inchiesta sull’omosessualità in Africa”(Edizioni Libreria Croce, € 15).
Avakian, esperta in diritti umani nata in Etiopia, ha lavorato per anni in Africa con le Nazioni Unite. La sua familiarità con la gente del Continente Nero l’ha portata a realizzare coraggiose ricerche (altri suoi libri, affrontano il tema dei bambini accusati di stregoneria e delle mutilazioni genitali femminili). Il saggio Storie nascoste è frutto di numerosi viaggi in vari Paesi dell’Africa, dove Avakian ha avuto modo di raccogliere testimonianze dirette di uomini e donne che hanno subito violenze, sono finiti in carcere e hanno rischiato la vita per il loro orientamento sessuale. 38 degli 85 Paesi che puniscono l‘omosessualità come un reato sono africani. Ma ciò che colpisce è che la violenza della repressione è infinitamente più forte, in queste società tradizionaliste, nei confronti delle donne.
Sabrina Avakian l’ha sperimentato di persona. Nel 2001 è stata ferita alla testa da una pietra lanciata da un gruppo di giovani contro una donna che era con lei. Portata d’urgenza all’ospedale, la sua ferita è chiusa con 70 punti di sutura.
- Sabrina, partiamo da questo episodio. Dove eri e perché sei stata colpita?
Mi trovavo a Luanda, in Angola, Paese dove ho vissuto e che conosco bene. Avevo appuntamento all’Ilha, una zona con bar e discoteche, con Euridice, un’amica giornalista angolana, che è molto nota per aver osato fare outing sulla sua omosessualità e per il suo impegno per i diritti delle donne lesbiche. Un gruppo di ragazzi l’ha riconosciuta e insultata, lanciando il sasso che ha poi colpito me...
-Questo episodio ti ha segnata ed è in qualche modo all’origine di questo saggio...
Sì, attraverso questa esperienza personale e poi dopo l’incontro con Kemal, il ragazzo sudanese di Khartoum di cui parlo nel libro, sono giunta alla decisione di scrivere questo libro. Il loro dolore mi ha spinta ad approfondire questo tema, ad ascoltare altre testimonianze.
- Perché la situazione delle lesbiche è persino peggiore rispetto a quella dei gay maschi in Africa?
In molte culture, il valore della donna è legato al suo ruolo riproduttivo. È una trasgressione inaccettabile che una donna scelga di amare un’altra donna e dunque non faccia figli. In Sierra Leone, la punizione è l’ergastolo. Eppure, in molte regioni la tradizione accetta l’omosessualità femminile: in Congo, per esempio, presso alcune etnie una donna sterile può avere una relazione stabile con un’altra donna, per non essere privata delle gioia della maternità, da vivere attraverso i figli della sua compagna.
-Che cos’è il corrective rape inflitto alle lesbiche?
È uno stupro di gruppo, che ha l’obiettivo di “educare” una donna lesbica, riportandola sulla retta via, quella etero. È una punizione fisica e psicologica. Questa pratica è nata in Sudafrica, che è il Paese africano con la legislazione più avanzata sui diritti degli omosessuali, formulata nel 2006, ma dove la situazione è ancora ambigua. Nel 2008, il capitano della nazionale femminile di calcio Eudy Simelane è stata stuprata e uccisa perché era lesbica e si batteva per i diritti degli omosessuali.
-Quale, fra le tante storie che hai raccolto, ti ha colpita più profondamente?
Mi ha colpita molto l’atteggiamento di Hamida, un’infermiera dell’Unicef che ho conosciuto in Tanzania, che diceva che l’omosessualità è una malattia. Giustificando così lo stupro subito da Ann, operatrice umanitaria tanzaniana, sposata con una norvegese, e violentata per aver difeso gli omosessuali. Quando Ann ha denunciato l’episodio al suo ufficio di New York delle Nazioni Unite, le è stato suggerito il silenzio sulla vicenda.

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