La descrizione della Mafia secondo Gaetano Mosca

lug 20, 2015 0 comments


Di Gaetano Mosca *

È strano intanto che si debba notare come coloro che
discorrono e scrivono di mafia, in tutta l’Italia, ma specialmente in quella settentrionale,
ancora oggi raramente abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla
parola mafia vogliono indicare.








Veramente sarebbe toccato ai Siciliani stessi di togliere gli
equivoci e di stabilire il vero valore del nuovo vocabolo da essi introdotto nel dizionario
nazionale. Ma per i Siciliani quel complesso di fenomeni sociali, di anomalie della loro
regione, che essi esprimono sinteticamente quando dicono la mafia, riesce così familiare, che
quasi non immaginano che altri possa sentire il bisogno di una dettagliata spiegazione, di un
commento che fissi e chiarisca i vari significati dell’espressione che i nativi dell’isola, mercé
la lunga consuetudine, facilmente distinguono.
Or dunque, dovendosi anzitutto eliminare questa poca precisione del nostro linguaggio
parlato, occorre rilevare che i Siciliani col vocabolo mafia intendono e vogliono significare
due fatti, due fenomeni sociali che, quantunque abbiano fra di loro stretti rapporti, pure sono
suscettibili di venire separatamente analizzati. La mafia, o meglio lo spirito di mafia, è una
maniera di sentire che, come la superbia, come l’orgoglio, come la prepotenza, rende
necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di rapporti sociali; e colla stessa parola
vien indicato in Sicilia non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole
associazioni che si propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare
ai membri dell’associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente delittuosi.
II. Il sentimento di mafia, o meglio lo spirito di mafia si può descrivere in poche parole:
esso consiste nel reputare segno di debolezza o di vigliaccheria il ricorrere alla giustizia
ufficiale, alla polizia ed alla magistratura, per la riparazione dei torti o piuttosto di certi torti
ricevuti. Sicché mentre generalmente è ammesso, anche da coloro che agiscono secondo le
norme dello spirito di mafia, che il furto semplice, la truffa, lo scrocco ed in genere tutti i reati
nei quali l’autore si aiuta esclusivamente coll’astuzia e l’inganno e non presume di esercitare
una violenza e di avere forza e coraggio maggiore della vittima, si possono denunziare alla
giustizia, ciò invece sarebbe interdetto da un falso sentimento di onore, o di dignità personale,
quando il reato riveste il carattere di una imposizione aperta e sfacciata, di un torto, che il reo
intende di fare specificatamente ad un dato individuo, al quale vuole far sentire la propria
superiorità e col quale non cura di stare in buoni rapporti perché non ne teme l’inimicizia ed il
rancore.
Le offese all’onore delle famiglie, le percosse, le violenze personali, l’omicidio in rissa o
per agguato sono tutti reati per i quali la denunzia alla giustizia è ritenuta dai mafiosi cosa
sconveniente e vile, che porta con sé una specie di squalificazione cavalleresca. Ma non sono i
soli: anche il taglio delle viti, l’uccisione del bestiame, l’abigeato7 e perfino la grassazione e il
ricatto con sequestro di persona quando assumono, e ciò avviene spessissimo, il carattere di
vendetta personale, di sfregio fatto ad un dato individuo, non sarebbero a rigore denunciabili;
e, se si denunciano è pro forma, per mettersi in regola, come si dice in Sicilia, colla giustizia,
ma senza in nulla agevolarla nella scoperta del reo, che invece spesso si conosce benissimo ed
al quale si vuole fare sentire il peso della propria personale vendetta.
Ed è qui da notare che il carattere di vendetta e di offesa verso una determinata persona è
una vera specialità della delinquenza siciliana. Reati che altrove non avrebbero alcun movente
personale, che sono ordinariamente perpetrati da rei professionali che scelgono
indifferentemente per vittime tutti gli individui che si trovano alla loro portata, in Sicilia
assumono la parvenza di una vendetta per un torto vero o supposto che il reo, o qualche suo
parente od amico, avrebbe subìto da parte della vittima; ben inteso che spesso il torto
accennato non è la vera causa ma piuttosto il pretesto del fatto delittuoso.
È per questa ragione che gli Italiani del continente ed in generale tutti i forestieri che
viaggiano od anche abitano in Sicilia sono quasi sempre rispettati dai malfattori, perché, non
avendo il forestiero in generale rapporti con la classe delinquente, è difficile che contro di lui
possa addursi il pretesto di una vendetta personale. È per la stessa ragione che gli stessi
Siciliani che abitano nelle grandi città dell’isola raramente sono vittime di reati premeditati;
giacché nelle grandi città ognuno può scegliere liberamente le persone colle quali vuole
stabilire qualunque genere di rapporti ed i rancori personali più difficilmente si accendono e
non trovano alimento nei contatti e negli attriti quotidiani come avviene nei piccoli centri.
Stabilito il principio che per la prevenzione e la riparazione di una larga categoria di offese
personali un uomo che vuole e sa farsi rispettare, è la frase tecnica, non deve ricorrere alla
giustizia legale, ne viene la conseguenza che è lecito, anzi doveroso, ingannare le autorità, o
almeno non dare ad esse alcun lume, quando vogliono intromettersi nelle contese private
disturbandone lo svolgimento naturale coll’applicazione dei canoni del codice penale. Quindi
filiazione diretta dello spirito di mafia è l’omertà, quella regola secondo la quale è atto
disonorevole dare informazioni alla giustizia in quei reati che l’opinione mafiosa crede che si
debbano liquidare fra la parte che ha offeso e quella offesa. E questa regola, che si applica
anche alle vertenze fra i terzi, è la principale causa che induce nei processi penali i testimoni a
diventare così spesso bugiardi o meglio reticenti. Perché nel Siciliano, anche che appartenga
alle classi più misere e rozze, la vera bugia è rara ed egli difficilmente racconterà il falso, ma
assai di frequente mostrerà di non conoscere o di non ricordare il vero, che invece conosce e
ricorda benissimo.
Ho conosciuto persone anche colte dell’alta Italia che trovavano qualche cosa di fiero e di
simpatico, o almeno di non completamente ignobile, in questo sentimento o spirito di mafia
per il quale ogni individuo crede onorevole fidare nella sua forza e nel suo coraggio per
respingere e prevenire le offese. Ma accade talvolta che anche una maniera di pensare e di
sentire, i cui moventi non sono tutti ignobili, produca in complesso risultati dannosi, ed in
questo caso bisogna avere il coraggio di condannarla energicamente e senza attenuanti. Or lo
spirito di mafia è un sentimento essenzialmente antisociale, il quale impedisce che un vero
ordine, una vera giustizia si possano stabilire ed abbiano efficacia fra le popolazioni che ne
sono largamente e profondamente affette. Come vedremo più avanti, esso inoltre ha per ultima
conseguenza l’oppressione del debole da parte del forte e la tirannia che le piccole minoranze
organizzate esercitano a danno degli individui della maggioranza disorganizzata.
Si potrebbe invece con più ragione osservare che lo spirito di mafia non è speciale alla
Sicilia, che esso si è trovato e si trova in tante altre parti del mondo, dovunque la giustizia
sociale si è mostrata o si mostra incapace a sradicare ed a sostituire del tutto il sistema della
vendetta privata. Lo spirito di mafia infatti, molto attenuato, esiste ancora nell’Italia centrale
ed attenuatissimo in quella settentrionale. Se il vocabolo che lo esprime nacque in Sicilia ciò
avvenne perché colà, grazie a circostanze che si debbono forse ricercare nella storia del secolo
testé morto o moribondo, la mafiosità è più radicata, più generale e profonda ed è diventata
più disciplinata ed organizzata. Così avvenne che i Gesuiti diedero il loro nome al
Gesuitismo, che essi non inventarono né sono i soli a praticare, ma che praticarono e praticano
assiduamente e che coll’assidua pratica perfezionarono e coordinarono a sistema.
In molte parti dell’Italia centrale il popolino crede sempre che il poliziotto, lo sbirro sia un
essere abietto, e non approva che uno, che viene ferito in rissa da una coltellata, riveli alla
giustizia il nome del feritore.8 Anche là abbiamo dunque non solo la mafia ma la sua
indivisibile compagna, l’omertà. E se gli operai di Torino sono in generale immuni da questa
lue, nei bassissimi fondi di questa città, fra i barabba ed i gargagnan,9 è ancora in vigore ed in
onore una maniera di fare perfettamente analoga.
Ma anche nelle alte classi di buona parte d’Europa e di tutta l’Italia un leggerissimo spirito
di mafia ancora sussiste. Fra esse si ammette infatti che per certe offese personali la
riparazione non bisogna cercarla nella giustizia legale ma nel duello. Il quale non è in ultima
analisi che una forma, attenuata, regolarizzata, circondata da garenzie, di quella tenzone
sanguinosa fra due individui a cui ricorrono spesso i popolani della Sicilia e di tutta l’Italia
meridionale e centrale per definire le loro querele.
III. È difficile di determinare precisamente quanto lo spirito di mafia sia diffuso in Sicilia.
Bisognerebbe prima fissare il punto dove la verità mafiosa comincia e dove finisce. Certo,
esaminando uno ad uno i Siciliani con criteri molto rigorosi, battezzando per mafiosi tutti
coloro che in qualche caso speciale credono preferibile di mettere a dovere colle proprie mani
un tracotante od un offensore anziché ricorrere alla giustizia, si potrebbe asserire che la mafia
comprende la maggioranza degli abitanti dell’isola. Ma se invece ricorriamo a criteri più
larghi e più giusti, se consideriamo per mafioso solo colui che per spirito di mafia ha
commesso un reato, od è almeno capace di commetterlo, allora i Siciliani che, come dicono
gl’Italiani del nord, sono affiliati alla mafia, diventano una scarsa minoranza.
Volendo fare delle distinzioni, a seconda delle varie classi sociali e delle varie regioni
dell’isola, dirò che lo spirito mafioso, in generale, è più forte e diffuso nei piccoli paesi e
meno assai nelle grandi città. Sebbene poi i contadini più poveri dell’interno dell’isola ne
siano meno affetti di quelli più agiati ed intelligenti dei comuni vicino a Palermo e delle
borgate rurali annesse a questa città. È naturale pure che lo spirito mafioso sia in generale più
forte, checché si dica e si scriva in contrario, nelle classi povere e rozze anziché in quelle
ricche sopratutto e in quelle istruite. Bisogna però riconoscere che vi è qualche grossa frazione
delle classi più povere, formata da coloro che esercitano certi determinati mestieri, che ne è
quasi completamente immune; ciò avviene segnatamente nei marinai e pescatori
numerosissimi nell’isola. Ed è pure vero che alcune frazioni delle classi dirigenti, certe
famiglie ricche e perfino blasonate sono fortemente intinte di mafiosità; si tratta però spesso di
famiglie di gabellotti, o grossi affittuari di fondi rustici, recentemente arricchite, nelle quali
l’educazione e la cultura sono rimaste indietro alla ricchezza di una o due generazioni; oppure,
se son famiglie antiche e blasonate, sono di quelle che al blasone accoppiano una buona dose
d’ignoranza e di rusticità, male larvata da una specie di gentilomeria sui generis, e che,
abitando per lo più in borghi appartati, dove le idee ed i sentimenti moderni hanno avuto
finora poca presa, hanno assunto, mi si passi la metafora, il colore morale dell’ambiente che le
circonda.

* Gaetano Mosca-Che cosa è la Mafia- pg 10-14

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