La dissociazione come meccanismo di difesa

ago 31, 2015 0 comments


Di Laura Ravaioli

L’articolo vuole esemplificare i diversi aspetti in cui si può considerare la dissociazione: come disturbo clinico identificabile nella categoria dei Disturbi Dissociativi secondo il DSM-IV, come fenomeno facente parte delle esperienze normali di un individuo e come meccanismo di difesa; in particolare è sviluppato questo ultimo aspetto che identifica la difesa dissociativa non solo come il meccanismo alla base dei disturbi più propriamente definiti “dissociativi”, ma anche come modalità difensiva riscontrabile in diverse patologie.






Dissociazione non patologica e disturbi dissociativi

Esistono episodi nella vita quotidiana in cui ricorriamo tutti alla dissociazione: per esempio: leggendo un libro che appassiona, “immergendoci” talmente nella lettura da provare un senso di disorientamento quando qualcosa, come un rumore, ci distoglie; “dimenticandoci” di essere alla guida perchè si pensa a tutt’altro; probabilmente ci stiamo “dissociando” da ciò che facciamo anche quando compiamo diversi lavori contemporaneamente, o quando leggiamo ad alta voce un brano non prestando attenzione al significato.

Queste esperienze non solo non rappresentano patologia, ma sarebbe forse più problematica la loro assenza, infatti dimostrano la capacità dell’individuo di lasciarsi coinvolgere dalle proprie fantasie e di poter poi riprendere il controllo delle proprie funzioni mentali senza rimanerne “sconvolto”.

In questo caso la realtà da cui ci si dissocia non necessariamente è vissuta come minacciosa e stressante; gli episodi sono transitori e non destano preoccupazione o disagio nel soggetto.

Quando invece vi è diagnosi di Disturbo Dissociativo, o Disturbo Post Traumatico da Stress siamo nel campo della patologia; anche se questa è direttamente riconducibile al trauma e ci sono possibilità di remissione, significa che la dissociazione è usata in modo non adattivo per l’individuo.

In primo luogo credo che l’utilizzo indiscriminato dei termini “dissociazione” e “disturbo dissociativo” sia da evitare perché crea confusione tra quella che può essere una modalità difensiva adattiva per l’individuo e una vera e propria patologia, che implica “un disagio clinicamente significativo oppure menomazioni nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti” (DSM-IV); per questo quando parlerò di disturbi dissociativi farò riferimento ai disturbi elencati nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.

“La caratteristica essenziale dei Disturbi Dissociativi è la sconnessione delle funzioni, solitamente integrate, della coscienza, della memoria, dell’identità o della percezione dell’ambiente” (A.P.A., 1994).

I disturbi mentali sono concettualizzati nel DSM-IV come sindromi o modelli comportamentali o psicologici clinicamente significativi, che si presentano in un individuo e sono associati a disagio, a disabilità, ad un aumento significativo del rischio di morte, (...) od a un importante limitazione della libertà (A.P.A., 1994).

Sempre il DSM-IV avverte che “la dissociazione non dovrebbe essere considerata automaticamente patologica”, ma in questo caso il riferimento è più ad una prospettiva transculturale, in cui si richiede al clinico di considerare il background del paziente, in quanto stati di trance o esperienze di depersonalizzazione possono essere legati ad attività culturali e religiose normali in molte società; il disturbo dissociativo comporta invece una menomazione, un disagio, o la ricerca di aiuto.

Dissociazione come meccanismo di difesa

“Anche nelle persone normali si hanno stati di dissociazione dell’Io dal corpo (…) Per esempio i prigionieri dei campi di concentramento cercavano attivamente di provare questa sensazione, perché il campo non offriva nessuna via d’uscita, sia nello spazio che nel tempo. Non c’era altro modo di uscirne che con una fuga psichica...” (R.D. Laing, “L’Io diviso”1957)

In questo caso il forte impatto emotivo che il trauma ha sull’individuo e la sensazione di insottraibilità alla situazione traumatica può portare all’uso della dissociazione.

Non si tratta dei fenomeni dissociativi “normali” di cui ho parlato sopra perché il materiale dissociato è minaccioso e la dissociazione è utilizzata come difesa per superare una situazione vissuta come inaffrontabile, paralizzante; essa permette tuttavia di allontanarsi, almeno col pensiero, dall’evento traumatico ma l’esperienza viene come congelata, relegata in una parte della memoria non accessibile alla coscienza, compartimentalizzata.

L’elaborazione del vissuto traumatico è rimandata ad un futuro, ad un momento in cui si suppone si sarà in grado di accettare e guardare l’esperienza senza esserne sopraffatti: in questo consiste soprattutto l’adattività di questa difesa.

Strumenti di valutazione della dissociazione.

Secondo le precedenti differenziazione sono descritti diversi strumenti per misurare la difesa dissociativa, che qui mi limiterò ad elencare e per la cui trattazione rimando al capitolo quinto della mia tesi “la difesa dissociativa” presso l’Università di Bologna; per la diagnosi di disturbo dissociativo sono indicati strumenti oggettivi specifici come la Dissociative Disorder Interview Schedule (DDIS) di Ross, la SCID-D basata sui criteri del DSM-IV mentre la Dissociative Experience Scale ingloba all’interno degli items esperienze dissociative normali; vi sono inoltre scale dei meccanismi difensivi che prendono in considerazione il meccanismo della difesa dissociativa, tra cui la Defense Mechanism Rating Scale (DMRS) di Perry e il Defensive Functioning Scale; tra i test proiettivi ho preso in considerazione il TAT ed il Test di Rorschach: oltre a fornire informazioni sulla struttura di personalità dell’individuo questi strumenti permettono di evidenziare l’uso della difesa dissociativa attraverso alcuni indicatori (per esempio nel Rorschach il movimento atipico e il punteggio dissociativo).

La difesa dissociativa e gli altri meccanismi.

Fare un confronto con gli altri meccanismi difensivi può aiutare a individuare certe “sfumature” del suo funzionamento.

Considerando il diniego come un gruppo di difese lungo un continuum (Lerner, 2000) porremo da un lato difese come la minimizzazione, in cui la distorsione della realtà è minima, e dall’altro lato il diniego vero e proprio, come rifiuto “di riconoscere un oggetto fisico o un evento che fa parte della sua esperienza presente” o “negazione psicotica” (Lingiardi e Madeddu, 1994).

Per le sue caratteristiche di forte distorsione della realtà al punto da non riconoscere eventi esterni come parte della propria esperienza sono d’accordo con Lerner nella sua affermazione che “la dissociazione corrisponderebbe al diniego di basso livello piuttosto che al diniego a livello nevrotico” (Lerner, 2000).

Un errore molto comune è poi pensare che il materiale dissociato sia “dimenticato” al pari del materiale rimosso nel meccanismo di rimozione.

Specialmente quando parliamo di Disturbo Dissociativo dell’Identità, “è erroneo concludere che il disturbo abbia a che fare con la memoria repressa (repressed memory) che più tardi ritorna alla mente (diventando recovered memory) (...) E’ importante fare chiarezza agli scettici sul fatto che questi individui (che hanno subito abuso) non hanno mai dimenticato l’abuso infantile, anche se lo hanno fatto i loro attuali stati di personalità. Con questo disturbo, la memoria non è repressa in un inconscio freudiano ma è dissociata in stati di coscienza alternativi (gli stati di personalità alternata) ” (Nadkimen, Klein et altri, 1999).

Entrambe le difese, rimozione e dissociazione, escludono alcuni contenuti mentali dalla consapevolezza; tuttavia “i processi differiscono per ciò che accade al materiale escluso. Con la rimozione, per definizione, il materiale è relegato nell’inconscio, quell’area della vita mentale che non può essere resa consapevole, nemmeno per scelta volontaria” e ciò implica una divisione orizzontale, in cui “ciò che è conscio si trova sopra e ciò che è inconscio è messo sotto; in mezzo vi è una barriera che separa le due parti”.

Nella dissociazione i contenuti non sono relegati nell’inconscio ma “si suppone possano esistere in parallelo, in una specie di co-consapevolezza, oppure si può pensare che siano accessibili alla consapevolezza considerandoli localizzati nel preconscio. (...) la divisione qui non è orizzontale come nella rimozione, ma piuttosto verticale, tra settori dell’esperienza conscia, separati da quella che Hillgard definisce una barriera dissociativa” (Lerner, 2000).

E’ utile inoltre distinguere la dissociazione dalla scissione perché parlare di contenuti tenuti separati, entrambi a livello conscio, può trarre in inganno: infatti “in nessuna delle due la divisione conscio-inconscio è un problema di fondo” ed “entrambe danno origine a un disturbo del senso di sé o del senso di identità” (Lerner, 2000)

Ma la domanda che ci dobbiamo porre è: cosa è mantenuto separato nei due meccanismi di difesa? Nella scissione a provocare ansia è l’ambiguità dei concetti; un oggetto con qualità affettive opposte, in alcuni momenti buono e in altri cattivo, provoca una tale ansia che necessita della scissione per cui la rappresentazione mentale dell’oggetto sarà duplice: un oggetto buono e un oggetto cattivo.

“La dissociazione, invece, è un concetto più ampio ed è usato per indicare una serie di suddivisioni che non sono tipicamente polarizzate in buone e cattive (...) ma comprende fenomeni diversi tra loro, come la perdita di memoria nell’amnesia, la perdita di consapevolezza negli stati di fuga e la suddivisione di ruoli nel disturbo di personalità multipla” (Lerner, 2000).

Anche se a questo punto può sembrare ovvio può essere ancora utile la distinzione con la soppressione: mentre questo meccanismo agisce attraverso l’“evitare di pensare a problemi disturbanti, desideri, sentimenti o esperienze” ed è un meccanismo semi-cosciente che il soggetto stesso può notare, la dissociazione è “la rottura delle funzioni solitamente integrate della coscienza, della memoria e della percezione di Sé nell’ambiente” (A.P.A., 1994) ed è “considerato essere un processo automatico: l’individuo non sa cosa lui o lei dissocia”; inoltre “mentre la soppressione è considerata essere una tra le strategie di coping più adattive, la dissociazione è generalmente vista come un meccanismo di difesa patogenico” (Muris, Merckelbach; 1996).

Relazione primaria e difesa dissociativa.

La famiglia è un “luogo principe” dove fare le prime esperienze, dove imparare a relazionarsi agli altri ed acquisire quella “fiducia di base” che fornisce all’individuo la forza per reagire alle diverse situazioni che affronterà nel mondo esterno; una relazione di attaccamento sicura con le figure parentali svolge una funzione protettiva per la salute fisica e mentale del bambino.

Cosa succede quando l’ambiente non solo non fornisce questa sicurezza indispensabile, ma è anzi un mondo ostile, da cui bisogna innanzi tutto difendersi? E come può difendersi appunto un bambino, che non ha alcuna possibilità di fuga perché completamente dipendente dalle stesse figure che abusano di lui? La difesa dissociativa può occorrere in questi casi come risposta difensiva del bambino al fine di schermare l’angoscia ed allontanarsi, almeno col pensiero, dall’evento traumatico.

Nella tesi già citata sono stati presi in considerazione diversi studi e modelli che mettono in relazione la dissociazione con il trauma e l’abuso; è importante poi soffermata sui disturbi della relazione primaria e sulle patologie dei rapporti intrafamiliari (abuso fisico e sessuale, abuso psicologico, neglect). Considero inoltre importante l’approccio di una parte della letteratura più moderna che considera la dissociazione come un meccanismo di difesa attivato non solo da gravi traumi come quelli sopracitati, ma anche come risposta a diverse situazioni stressanti che si ripetono più volte durante l’evoluzione del soggetto e che a lungo andare costituiscono dei “micro-traumi” in grado di attivare meccanismi dissociativi.

In questo caso non è la severità degli accadimenti traumatici ad attivare difese primitive ma la loro ripetitività, il loro protrarsi nel tempo.

L’ “esternalizzazione parentale” , per esempio, consiste nella “proiezione di aspetti svalutati e rinnegati dei genitori sul bambino, il quale viene considerato come qualcosa che di fatto non è” (Lerner, 2000). Non accettare il bambino per l’essere che è realmente, svalutarlo nelle sue capacità, o anche impedirgli quella esperienza del mondo che servirebbe per il suo sviluppo, seppur nel tentativo di proteggerlo, possono talvolta causare (o concorrere) a gravi disturbi nella sua personalità.

Nell’ipotesi di sviluppo che ho descritto, seguendo le linee del lavoro clinico di Orefice (Orefice, 2002), la difesa dissociativa è considerata come una modalità tipica di rapportarsi agli eventi stressanti che l’individuo ha imparato ad utilizzare all’interno di un clima familiare denso di sentimenti di sfiducia e di diffidenza.

Ciò che viene intaccata è proprio la fiducia di base, e la sfiducia e la diffidenza che ne derivano sono poi riproposte dal paziente nelle relazioni con gli altri al punto da non riuscire ad “utilizzare” neanche il clinico nella sua funzione di diagnosi e di cura manifestando una difficoltà nello stabilire l’ alleanza diagnostica o terapeutica.

La dissociazione è inoltre ipotizzata essere il meccanismo alla base dei cambiamenti di stato (si intende con questo il variare di stati affettivi, degli stati di coscienza, fino alla fuga in stati di coscienza alterati) che, mentre rappresentano una modalità naturale di rapportarsi al mondo in un bambino piccolo, diventano segno di patologia se utilizzati abitualmente da parte di un adulto.

Entrambe queste caratteristiche, ovvero la difficoltà d’instaurare l’alleanza terapeutica/diagnostica e la presenza di cambiamenti di stato, sono riscontrabili nei “pazienti difficili” di cui parla la letteratura, spesso diagnosticati con un disturbo in Asse II (disturbi di personalità) o comunque con cospicue difficoltà di rapporto con il clinico : in questo senso, la difesa dissociativa può fornire un’ altra prospettiva per osservare tali disturbi che rappresentano oggi la sfida più grande per il clinico.

BIBLIOGRAFIA

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FONTE:http://www.psicologi-italia.it/psicologia/psicosi/753/dissociazione-mentale.html

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