Coronavirus e sorveglianza

apr 10, 2020 0 comments

Di Vittorio Ray

Partiamo dal Covid-19 per parlare di dispositivi e sorveglianza. La gestione cinese dell’emergenza, per adesso apparentemente ben riuscita, rischia secondo alcuni di sdoganare presso i nostri sistemi liberali – e relativi elettorati – la legittimità di governance autoritarie. Nello specifico, il riferimento è al controllo centralizzato e incrociato di tutti i dati messo in campo dal governo cinese, a ben vedere già da tempo e non solo per arginare emergenze sanitarie straordinarie. È noto insomma che la Cina stia cercando di implementare un monitoraggio ‘integrale’ della cittadinanza, sempre in funzione di una qualche idea di bene, ma restringendo inevitabilmente la libertà delle persone di compierlo o meno.
Ecco quindi che iniziamo a toccare con mano i potenziali pregi di una centralizzazione che finora, dai racconti dei media e più spesso dalle puntate di Black Mirror, ci sembrava avere soltanto difetti distopici. Perché al di là del fatto che sia stato utile o no per la Cina (forse è più il caso della Corea del Sud), la novità che il Covid ci ha mostrato è questa: esiste, ed è sempre più incalzante, un trade off tra maggior efficienza di governance tramite l’analisi dei dati personali (geolocalizzazione, acquisti, consumi, etc.) e la loro accessibilità; tra prevedibilità del futuro e rispetto della privacy. In particolare, la paura che serpeggia da noi (in Italia è allo studio in queste ore una nuova app “anti-Covid”) è che questi metodi vengano fatti penetrare in circostanze e con decreti straordinari, salvo poi rimanere anche in tempi di pace.
Anticipo le conclusioni: le tecnologie ICT, anche le più invasive, sono già su questo pianeta e sono venute per restare. L’evento del Covid è stato solo un catalizzatore di processi che, forse con altri tempi, sarebbero comunque stati inesorabili. Invece di indugiare troppo su sogni di libertarismo infranti, tra le tante finestre (sociali, tecnologiche, redistributive, ecologiche) che si apriranno con la crisi dobbiamo posizionarci bene sull’onda e tirare con tutta la forza nella miglior direzione possibile.
Possibile. Vengo al punto più ambizioso di questa breve riflessione. Ormai è piuttosto condivisa l’idea che il progresso, dal punto di vista materiale, non è reversibile: questioni di investimenti da ripagare, sedimentazione di poteri, assuefazione degli utenti, generale scarsa reversibilità della storia – salvo fallimenti gravi e rari. Il mio statement è che anche sul piano etico e politico la tecnologia definisca i confini entro i quali è legittimo – nel senso di realistico – ragionare, sperare, fare politica. In un modellino basilare del mondo potremmo dire che la tecnica muta, l’uomo rimane sempre lo stesso: ogni volta che il terreno di gioco si sposta, bisogna rideclinare i concetti e i valori di sempre secondo le nuove coordinate. Se 100 anni fa era ancora possibile intendere la libertà in un certo modo, americano, lockiano, individualista, oggi quello spazio sta venendo meno. Nella classica dicotomia tra libertà negativa (libertà da) e positiva (libertà di), in quest’epoca la nuvola delle possibilità sembra volare sempre più verso il secondo cielo. Questo per vari ordini di motivi, ne nomino alcuni. Materialmente lo spazio è più denso, siamo tanti e viviamo attaccati, gli effetti delle nostre azioni ricadono platealmente su tutti i vicini di casa, e basta tornare da un viaggio all’estero per rischiare di causare un’epidemia. Conoscitivamente, poi, le distanze sono ancora più brevi: sappiamo tutti che la CO2 che emettiamo a Roma o Parigi mette in crisi gli ecosistemi ai poli. Tecnologicamente, lo viviamo ogni giorno, accedere a ogni servizio implica la cessione di informazioni al provider, che volenti o nolenti ci inserisce nella nostra bolla di gusti, consumi, affinità politiche. E per ogni salto in avanti compiuto dalle intelligenze artificiali private che mandano avanti gli algoritmi, la nostra comprensione del mondo (limitata per capacità di informazioni e calcolo) diventa a confronto più piccola e indifesa.
Vengo al dunque. C’è un allarmismo verso una possibile gestione pubblica dei dati personali che da un lato è un po’ ingiustificato (o meglio, pessimista), dall’altro è inadeguato rispetto a quello inesistente, o minuscolo o già scomparso, della gestione privata che già abbiamo sotto gli occhi. Piuttosto, gli stati (ovvero gli enti reali atti a difendere l’interesse pubblico – se esistono sinonimi più generici il lettore è libero di usare il concetto più debole) devono cogliere quest’occasione mediatica per rivendicare la loro centralità in un rapporto di forze che ad oggi si sbilancia ogni giorno di più verso uno strisciante, ambiguo, illusorio “libertarismo”, e che di fatto si traduce nella libertà delle corporation di guadagnare sempre più metri di vantaggio nel vuoto legislativo. È assolutamente legittimo e auspicabile che i cittadini stabiliscano un limite alla fruibilità di quei dati personali, anche a fini pubblici e/o coercitivi, ma per farlo è in primo luogo necessario che un ente “disinteressato” – guidato dall’interesse pubblico – se ne appropri integralmente o abbia almeno il controllo della situazione.
Fino ad ora siamo rimasti su un piano teorico, concettuale. Stiamo eludendo tutta la parte di scontro geopolitico realeboots on the keyboard. Provo adesso a disegnare un’analisi leggermente più materialista, sperando di non perdere di generalità.
Le aziende hi-tech cinesi, cresciute alle spalle del Golden Shield Project, sono ormai per molti aspetti più avanzate di quelle occidentali e rappresentano l’asset cardinale di “Made in China 2025”, il programma con cui la Repubblica Popolare Cinese cercherà di consolidare il suo modello di globalizzazione. Le piattaforme statunitensi, attualmente ancora al vertice del mercato, negli ultimi anni hanno un po’ perso la loro vocazione originale without-borders. L’amministrazione Trump ha rilanciato molto esplicitamente la competizione globale, chiarendo dopo anni di misunderstanding e wishful thinking che si tratta di un gioco a somma zero: vincitori e perdenti, senza molto spazio per la cooperazione. Il mercato della tecnologia non ha potuto fare eccezione: il caso di Google che ha sospeso la fornitura di software a Huawei è stato solo il più eclatante di questi esempi. Vedere aziende californiane lanciarsi in (contro)misure protezionistiche è stato un importante bagno di realismo: ci ha ricordato che dietro la realtà digitale esisterà sempre un mondo di hardware, cavi, confini, lotta per l’egemonia.
E noi europei? Per adesso noi siamo gli arbitri. Essendo costantemente a corto di muscoli economici, totalmente sprovvisti di mezzi militari, abbiamo deciso di diventare i più raffinati rule-makers della competizione cibernetica. Abbiamo così inventato il più avanzato complesso di norme di rispetto della privacy al mondo, ai cui principi già molti paesi extra EU si stanno ispirando. Il GDPR è talmente “esigente” e avanzato nella protezione dei cittadini, almeno rispetto al vuoto che lo precedeva, da essersi meritato da varie parti l’accusa di “protezionismo informatico”. Se anche solo una delle GAFA fosse europea l’accusa potrebbe avere senso, ma poiché non è questo il caso, si può parlare al massimo di garantismo verso i singoli utenti europei. Ma è abbastanza? Il rispetto della privacy è un aspetto fondamentale per la nostra cultura, ma non esaurisce la sfera dei rischi e della sovranità cibernetica. Al contrario, una visione così formalistica del problema rischia di essere proprio la traduzione di quella postura “negativa” e libertaria, di restare attaccata ad un piano abbondantemente superato dalla prassi della realtà, che si svolge invece nello spazio profondo che le nuove tecnologie ICT hanno letteralmente creato. Bot, diffusione di notizie false, visibilità sugli algoritmi che regolano funzioni ormai fondamentali della vita democratica: queste sono le sfide da affiancare al rispetto della privacy. Ad esempio, nel pieno dell’emergenza Covid, il sistema informatico della sanità spagnola ha subito un attacco hacker. Il nostro continente ha un piano comune di difesa da questi attacchi?
Facciamo in modo che questa crisi, nata come sanitaria e che velocemente sta trapassando in tutti gli ambiti della vita pubblica e privata, dopo tutta la sofferenza ci renda anche più robusti. Parlando di dati: mettiamo in piedi, alla scala geografica che riteniamo più opportuna e rilevante, istituzioni che abbiano la forza, l’agilità, le conoscenze, la responsabilità e l’accountability per raccogliere tutti i dati personali, da cui scremare: quelli che decidiamo essere troppo sensibili, da cancellare; quelli fruibili, da restituire all’iniziativa privata per essere sempre più liberi di fare tutte le cose bellissime che Facebook, Google, Tiktok etc. ci permettono di scoprire; quelli utili alla governance, in situazioni di crisi o di pace, da sfruttare con criterio e trasparenza per il maggior bene pubblico. Creiamo tribunali speciali, task force attrezzatissime, piene di risorse umane ed economiche, che arginino l’arbitrio finora davvero poco contrastato dei colossi tecnologici – e delle potenze che gli stanno dietro. Tecnologie nuove implicano sfide nuove, sfide nuove hanno bisogno di istituzioni nuove.
6 – continua.
  1. “Una concezione adattiva della Storia” di Pierluigi Fagan.
  2. “La Chiesa contro il coronavirus: il mondo sulle spalle di Francesco” di Emanuel Pietrobon.
  3. “Che ne sarà di noi?” di Gustavo Boni.
  4. Dai campioni nazionali al golden power: le prospettive della tutela del sistema-Paese”, conversazione con Alessandro Aresu.
  5. “Le rotte della “Via dela seta della salute” di Diego Angelo Bertozzi.
  6. “Coronavirus e sorveglianza” di Vittorio Ray

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