Di Annamaria Rivera
Se mai un filo, quantunque sottile,
legasse ancora il governo provvisorio della “troika” alla società
civile (come è detto in Tunisia
l’insieme dei soggetti politici e sociali impegnati attivamente), esso
si è spezzato in modo irreparabile il 9 aprile. Era la Giornata dei
Martiri, festa nazionale che commemora l’eccidio perpetrato dalle truppe
di occupazione francesi il 9 aprile del 1938. Ed era la data solenne
che un ampio cartello, costituito dall’Ugtt, la storica centrale
sindacale, da tutti i partiti progressisti o di sinistra, dalle più
varie associazioni, da un numero importante di personalità pubbliche, di
artisti e intellettuali, aveva scelto per riprendersi l’Avenue
Bourguiba. La sfida era quella d’infrangere il divieto di sfilare lungo
l’arteria più centrale di Tunisi, simbolo della rivoluzione del 14
gennaio, proibita ai manifestanti dal giorno in cui un gruppo di
salafiti aveva aggredito lì alcuni artisti.
L’intento era dar luogo a un grande corteo di protesta contro le
promesse mancate del governo provvisorio, contro la disoccupazione e la
povertà crescenti, contro lo strapotere di Ennhada, il partito
islamista, di maggioranza relativa, che di fatto domina la compagine
governativa e l’Assemblea costituente, nonché contro la tolleranza
riservata alle violenze quotidiane perpetrate dai salafiti. Solo per
citarne l’ultima, qualche giorno fa a Jendouba un gruppo di “barbuti”
ha aggredito all’arma bianca un diciottenne accusato di furto,
recidendogli i nervi di una mano.
In realtà, il grande corteo non c’è mai stato: la polizia, schierata
massicciamente ovunque, ha impedito che i cinque piccoli cortei
provenienti da altrettanti luoghi di concentramento confluissero in
Avenue Bourguiba. E per farlo non ha risparmiato in violenza, attaccando
a manganellate e lanci di lacrimogeni il più minuscolo assembramento,
finanche gruppi di cittadini e turisti che dalle soglie dei caffè
osservavano le imprese delle “forze dell’ordine”. Abbiamo visto perfino
anziani e adolescenti feriti in pieno volto dalle manganellate, un gran
numero di persone asfissiate dai gas lacrimogeni sparati ad altezza di
uomo e di donna: anche chi scrive è stata colpita da un lacrimogeno
tirato da distanza brevissima, mentre, davanti a un bar, fotografava le
performance poliziesche.
I tanti piccoli cortei, le tante piccole folle che gridavano slogan e
agitavano bandiere non sono mai riusciti a convergere nel grande corteo
che si era previsto, anche per l’assenza di direzione e di
organizzazione. Tuttavia, la spontanea “guerriglia” pacifica per
riconquistare l’Avenue e manifestarvi è durata l’intera giornata, fino a
sera, in zone molteplici della città. In alcune, giovani e
giovanissimi, ragazze e perfino bambini hanno cercato di respingere la
polizia con lanci di pietre.
Sebbene la repressione poliziesca punteggi senza sosta la fase attuale,
detta di transizione, era dai giorni del sollevamento popolare per la
cacciata di Ben Ali che non si vedeva una tale aggressività delle
“forze dell’ordine”, questa volta spalleggiate, si dice, dalle milizie
di Ennhada. È quel che ha denunciato, fra gli altri, Hamma Hammami,
segretario generale del Poct (Partito operaio comunista tunisino), il
quale per questo è stato querelato dal ministro dell’Interno, un
dirigente di Ennhada: ormai immemore, il ministro, dei decenni passati
in prigione e delle persecuzioni subite da quella stessa polizia che
egli ha schierato il 9 aprile contro i manifestanti. Invero, anche chi
scrive ha visto e fotografato uomini in borghese, ben distinguibili
dalla polizia politica ugualmente in borghese: mescolati fra i
poliziotti, impugnavano enormi bastoni di legno.
Basterebbe questo fatto, altamente simbolico, a mostrare la frattura
che si è aperta fra Ennhada (e i suoi alleati governativi più o meno
fedeli) e le forze vive della società che sono state le protagoniste
dell’insurrezione che ha condotto alla caduta del regime dittatoriale
di Ben Ali. Una frattura che, se si è palesata chiaramente il 9 aprile,
in realtà era andata allargandosi progressivamente sull’onda di eventi
sconcertanti per chi ha lottato per l’uguaglianza e la dignità, la
democrazia e la laicità.
Sul piano delle drammatiche ineguaglianze sociali che
contraddistinguono la società tunisina, nulla è cambiato. Anzi,
l’aggravamento della crisi economica mondiale, l’instabilità seguita
alla caduta del regime, il crollo conseguente del turismo e di numerose
attività produttive, l’inettitudine o la mancanza di volontà del
governo provvisorio hanno peggiorato la situazione: le regioni non
costiere e le periferie diseredate delle grandi città registrano tassi
crescenti e spaventosi di disoccupazione, di povertà assoluta e di
abbandono sociale (per dirne una, tuttora l’assistenza sanitaria
gratuita è riservata a chi ha un lavoro e un reddito regolari).
Quanto al piano delle libertà e dei diritti civili, basta citare due
fatti recenti. Alcuni giorni fa, per bocca del suo portavoce ufficiale,
il presidente della Repubblica, cioè il laico Moncef Marzouki, storico
oppositore del vecchio regime e un tempo attivo difensore dei diritti
umani, ha approvato la condanna a sette anni di prigione dura, più
un’ammenda di 1.200 dinari, di due giovani intellettuali e blogger
accusati di blasfemia: avevano osato postare in rete scritti e immagini
considerati sacrileghi verso il Profeta e l’Islam. Un fatto
scandaloso, ancor più intollerabile per coloro che, insorgendo contro
il regime benalista, avevano lottato anche per i diritti civili e la
libertà di espressione.
Il secondo caso sta a mostrare come coloro che hanno espropriato
l’insurrezione popolare non siano stati capaci di compiere neppure
quegli atti simbolici che di solito seguono a un rovesciamento di
regime, fra i quali la liberazione dei prigionieri politici e la
chiusura di prigioni segrete. I primi giorni dello scorso novembre, è
morto in un ospedale di Tunisi un uomo anziano, che le cronache avevano
soprannominato «lo sceicco di Charles Nicole», dal nome dell’ospedale
ove era stato ricoverato, un mese prima, sotto falso nome e in
condizioni terribili. Si trattava, in realtà, di Ahmed Ben Mohamed
Lazreg, vecchio oppositore di Bourguiba condannato a morte nel 1986,
torturato ripetutamente e rinchiuso da lunghissimo tempo in una
prigione segreta.
In conclusione. Se fra le espressioni numerose e molteplici della
“società civile” la delusione e la rabbia sono davvero cocenti, non per
questo prevale la rassegnazione. Tutt’altro: i tanti manifestanti del 9
aprile con i quali abbiamo scambiato opinioni sono fermamente convinti
che la Giornata dei Martiri ha inaugurato un fase nuova. In realtà, ci
hanno ripetuto, la “rivoluzione del 14 gennaio” è stata solo un
sollevamento popolare contro il vecchio regime: ora si tratta di
riprendere in mano il processo iniziato allora e trasformarlo in una
vera rivoluzione democratica.
*Docente, il suo articolo e’ stato pubblicato il 10 marzo 2012 dal quotidiano Il Manifesto
Da Nena News
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