Diceva Cederna: l’Ilva di Taranto è “barbarica industrializzazione”

ago 19, 2012 0 comments
Foto d’epoca dell’Ilva di Taranto, a quel tempo ancora Italsider
 Di Alessandro Marzo Magno
È il 1965. Il presidente Giuseppe Saragat inaugura l’Ilva (allora Italsider) di Taranto e i giornali glorificano la fine degli oliveti e l’arrivo della grande fabbrica. Il tono sembra quello del Ventennio. È Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, a definire invece quello tarantino un «processo barbarico di industrializzazione». E scrive: l’Italsider «tende a imporre il proprio interesse aziendale, considerando la città e i suoi duecentomila abitanti come un semplice serbatoio di mano d’opera». 

«Io sono qui, anche oggi, per solennizzare l’entrata in funzione di un grande stabilimento industriale, questa volta rappresentato dal complesso degli impianti del IV centro siderurgico dell’Italsider. E anche in questa occasione voglio recare agli italiani del Mezzogiorno l’assicurazione che lo Stato ha preso effettivamente e seriamente coscienza della realtà meridionale e si adopera per mutarla». Così parlò Giuseppe Saragat, presidente della Repubblica italiana, il 10 aprile 1965, giorno dell’inaugurazione ufficiale del Centro siderurgico Iri “Salvino Sernesi” di Taranto, poi diventato Ilva dopo la privatizzazione.
L’impianto funzionava a pieno regime da ormai quattro mesi. La prima pietra era stata posata il 9 luglio 1960, il primo reparto a entrare in attività nel 1961 era quello che produceva tubi, il primo altoforno ha cominciato a funzionare il 21 ottobre 1964, il secondo il 29 gennaio 1965. Qualche tempo dopo arriva Saragat a solennizzare il tutto. La Stampa dell’11 aprile 1965, domenica delle Palme, mette l’articolo sull’evento a pagina 5. Strana scelta, perché è la pagina degli spettacoli e il titolo a cinque colonne «Saragat in visita ufficiale a Taranto inaugura il centro siderurgico Italisider» è accanto ai programmi tv (programma nazionale e secondo programma, ultimo spettacolo alle 22, poi tutti a nanna) e sopra «La Zelmira di Rossini a Napoli torna in scena dopo 130 anni».
L’articolo, siglato g. fr., è una cronaca della visita presidenziale, un “c’era questo c’era quello”, scritto da un giornalista che con ogni probabilità aveva imparato il mestiere qualche decennio prima, visto lo stile littorio della scrittura: «Saragat è giunto – in treno presidenziale – alle 9,40. Una folla numerosissima – nella quale risaltavano per numero e calore di applausi i lavoratori e i giovani delle scuole – ha festosamente accolto il Capo dello Stato accompagnandolo lungo il percorso con le sue cordiali dimostrazioni».
Scrive il giornalista della Stampa:
«Il IV centro siderurgico Italsider – quarto in ordine di tempo perché viene dopo quelli di Cornigliano, Piombino e Bagnoli – sorge a occidente della città, dove fino a pochi anni fa era uno sterminato oliveto e si estende su un’area di sei milioni di metri quadrati, superiore a quella dell’intera Taranto che pure è una città con più di duecentomila abitanti. Sono previsti investimenti per 350 miliardi. La capacità produttiva è di due milioni e mezzo di tonnellate d’acciaio all’anno, due milioni di tonnellate di ghisa, e infine lamiere a caldo, lamierini, nastri metallici e tubi saldati per un totale complessivo superiore ai due milioni di tonnellate. La decisione di costruire una grande acciaieria a Taranto fu presa dal governo e dall’Iri attorno al 1959. L’acciaio è l’elemento base di ogni economia moderna, l’Italia ne produceva molto meno di quanto ne avesse bisogno (nel 1955, 5 milioni e 400 mila tonnellate); il resto veniva importato. Una grande acciaieria era dunque indispensabile ed era anche indispensabile che sorgesse in riva al mare, con un porto a disposizione, perché il materiale ferroso acquistato all’estero – l’Italia ne produce poco – potesse passare direttamente dalle navi all’acciaieria senza le lungaggini di costosi trasporti ferroviari che avrebbero causato perdita di tempo e notevole aumento di costi».
Notare che l’ingloriosa fine dello «sterminato oliveto» non sembra commuovere nessuno. Cosa volete che sia del miserabile olio d’oliva in confronto al lucido acciaio! Nell’impianto lavorano 4.500 operai, scelti su 12.000 candidati, ridotti a 9.000 dopo una prima scrematura. Si sottolinea che i dipendenti sono stati assunti da «psicologi e specialisti» e che «nella quasi totalità parteciparono poi a meticolosi e aggiornatissimi corsi di addestramento. Alcuni destinati ad incarichi particolarmente delicati, furono inviati per qualche mese in Germania o negli Stati Uniti». Mamma azienda pensa a tutto ed è buona per definizione.
Ben diverso il tono adottato sette anni dopo da Antonio Cederna nel Corriere della sera. Il fondatore di Italia Nostra scrive due lunghi e indignati articoli di fronte all’ormai avviato raddoppio degli impianti. In assenza di un piano regolatore e comportandosi come un rullo compressore, l’Italsider decide di andare avanti a ogni costo. Il 13 aprile 1972, un articolo a pagina tre (allora si trattava della Terza pagina, una delle collocazioni più prestigiose nel giornale) titola a sette colonne: «Taranto in balia dell’Italsider». Cederna definisce Taranto «una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio». Scrive: l’Italsider «tende a imporre il proprio interesse aziendale, considerando la città e i suoi duecentomila abitanti come un semplice serbatoio di mano d’opera, trascurando ogni altra esigenza dello sviluppo civile e del progresso sociale». Osserva: «un’industria a partecipazione statale impone le proprie scelte particolari alla comunità. Mille camion al giorno scaricano a mare il materiale sbancato a monte e i velenosi residui degli altiforni: un’enorme distesa di mare è già colmata e i lavori procedono senza tregua».  Sottolinea: il consiglio comunale vota contro l’ampliamento, ma l’Italsider esercita pressioni attraverso Roma e «nell’agosto 1971 il sindaco democristiano di Taranto, nonostante il parere contrario della commissione edilizia, firma le licenze». Le aree sarebbero state destinate a zona agricola, ancora una volta l’agricoltura, simbolo dell’arretratezza, è sacrificata all’industria, simbolo del progresso.
L’articolo successivo è intitolato: «Taranto strangolata dal boom». Cederna ha parole durissime, definisce quello tarantino un «processo barbarico di industrializzazione». Mette ben in rilievo che «un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Si tratta del quartiere Tamburi tornato al centro delle cronache in questi giorni per l’alta incidenza di tumori.
Il fatto che i duemila miliardi di lire impegnati dallo stato italiano per costruire la futura Ilva siano soldi pubblici non ha minimamente indotto i vertici dell’Italsider a investire qualcosa sulla città, che anzi, diventa sempre più invivibile. «Quartieri popolari spietatamente affumicati dall’industria, il centro storico in vergognose condizioni di abbandono, il borgo otto-novecentesco soprelevato da quattro a nove piani, un traffico più paralizzato che a Roma, carenza dei servizi essenziali (doppi e tripli turni nella scuole elementari, le medie per due terzi in locali di fortuna), la totale mancanza di verde pubblico (metri quadrati 0,4 per abitante), il Mar Piccolo inquinato (più vittime per tifo che in ogni altra parte d’Italia). Taranto moderna si presenta come la smentita di ogni decenza urbanistica». Spiega Antonio Rizzo, presidente tarantino di Italia Nostra: «Dodici anni fa addosso a una città dalle strutture fragilissime fu gettato un colosso industriale che sta per raggiungere la statura di duemila miliardi e sedicimila dipendenti, senza la minima preoccupazione di inserire l’operazione in un piano di armonico sviluppo della comunità». Rizzo rilascia queste dichiarazioni esattamente quarant’anni fa: quello di Taranto, come si vede, è un male antico.
Fonte: http://www.linkiesta.it/ilva-taranto-storia

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