Non appena la “spending review” ha cominciato a muovere i primi passi, con le lentezze del caso e col tradizionale ritardo d’ogni programma italiano, Napolitano, con scarso senso dell’opportunità, ha ritenuto di avvertire il governo di procedere a “tagli compatibli” della spesa pubblica, la quale avendo dimensioni gigantesche di parassitismo e di spreco di tutto avrebbe bisogno salvo che di avvertimenti alla sobrietà e alla cautela. Ma chi della democrazia ha sempre avuto un’idea relativa, come Napolitano, non può certo cambiare all’improvviso e rifarsi una verginità nuova.
L’uomo è ciò che è ed è sempre stato. Fin dai tempi della segreteria Togliatti, dopo i fatti di Ungheria, nel 1956, Napolitano, pur richiamandosi all’ala migliorista, di “destra” del PCI, si è sempre segnalato come un elemento di apparato, docile e devoto alle direttive del parito. La crisi della partitocrazia, della quale è stato tra gli alfieri più convinti e tenaci, e grazie alla quale ha rivestito funzioni istituzionali e di governo, non ha operato su di lui alcun ripensamento e, come capo dello Stato, anziché attenersi rigorosamente alla Carta, come ci si dovrebbe aspettare dal suo supremo custode, continua in realtà a travalicarne i limiti e le funzioni.
La natura autoritaria che lo permea e che lo ha costantemente ispirato nella sua lunga militanza politica gli permette di compiere, senza imbarazzo alcuno, questi continui strappi costituzionali, insieme alla vanità dell’apparire che lo accomuna al suo sodale Monti, del quale non disdegna d’essere considerato la guida e il mèntore. Si ricorderà, solo di passata, che Napolitano è il solo comunista al quale la caduta del muro non ha impedito di salire ai vertici dello Stato. All’Est, nessuno si sarebbe sognato di eleggere un vecchio arnese del passato regime. E’ per questo, che fuori ogni norma costituzionale e di principio, che al contrario dovrebbe imporgli la regola del silenzio e della discrezione, Napolitano ha derogato continuamente dal suo ruolo compiendo stavolta un atto di governo in aperto contrasto con lo spirito della Carta che assegna al presidente pochissimi poteri e per certi versi meramente simbolici e di rappresentanza.
Così il numero delle auto blu non è stato ridotto di molto, non si parla di ridurre i rimborsi elettorali ai partiti, né di ridurre le pensioni d’oro (Amato, Ciampi) né la body guard del presidente Fini (ma chi se lo fila l’ex balilla di Almirante?), nè, tanto meno, di ridurre le spese del Quirinale repubblicano che costa sei volte di più del palazzo reale della regina Elisabetta II d’Inghilterra. Si è giunti alla furbizia levantina di far rientrare dalla finestra norme e provvedimenti che la volontà popolare aveva cacciato dalla porta. L’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti votata a maggioranza dagli elettori, non ha avuto alcun effetto. Si è mascherata l’abolizione, col contributo elettorale, tradendo la volontà degli elettori e spendendo più di prima.
Non è la prima volta che succede. Non è un mistero che in Italia c’è una dittatura dei partiti. E solo il discredito in cui sono precipitati ha permesso l’avvento in Italia, come in certa Sudamerica, di un governo non rappresentativo del popolo. Solo in Italia viene tollerato l’asse di potere che, contro ogni regola democratica, si è stabilito tra Quirinale e palazzo Chigi, un asse che equivale a un colpo di Stato che ha esautorato il Parlamento e ogni altra sede di mediazione politica. E’ per questo che il presidente, non temendo nè critiche né censure, si comporta come il capo di una repubblica presidenziale che, come in Francia e negli Stati Uniti, è sottoposto al voto degli elettori. Ma le libere elezioni e la volontà popolare non appartengono al bagaglio ideologico del compagno Napolitano. Così in un governo di Carneade, re Giorgio può impunemente agire da sovrano.
Fonte: http://www.lindipendenza.com/napolitano-repubblica-partiti/
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