“Parlare di produttività significa non aver capito il mondo”

ago 24, 2012 0 comments
Intervista di Dario Ronzoni a Domenico De Masi

Di Dario Ronzoni
Parlare di produttività, quando si parla di lavoro, non ha più senso. Non nel mondo contemporaneo, in cui il 70% del lavoro è di tipo intellettuale, e non fisico. Lo spiega Domenico De Masi, sociologo del lavoro e professore alla Sapienza di Roma: ora si ragiona in altri termini, come spiega a Linkiesta. Servono più formazione e motivazione, pochi controlli e più responsabilità. Così si uscirà dalla crisi, dice. E si lavorerà anche meno ore.

Lavoro e produttività, Italia e Germania, ore lavorate e classifiche. Un calderone che è anche un dibattito, ricco di numeri, di idee per uscire dalla crisi e di convinzioni radicate. Il problema è che – si scopre– alcune di queste sono sbagliate, come ad esempio quelle che riguardano la produttività. Lo ricorda Domenico De Masi, sociologo del lavoro e fondatore di S3 Studium. «La produttività è un criterio vecchio», spiega, «al giorno d’oggi non aiuta a definire i ritmi e i risultati del lavoro». Ora che tutto è cambiato, anche le categorie che servono a definire la realtà devono adeguarsi. «Occorrono strumenti nuovi», spiega, «e la società deve imparare ad accoglierli, anche se ci sono molti limiti».
Partirei proprio da qui, dai limiti. Quali sono?
Ce ne sono tanti. Il primo limite è di tipo lessicale. La parola “lavoro” non va più bene.
Perché?
Perché è troppo ampia, e raggruppa in sé concetti molto distanti, che non possono essere considerati, e quindi trattati, nello stesso modo. Il “lavoro”, all’inizio – e parlo dell’Encyclopédie di Voltaire e Diderot – era solo lo sforzo delle viti per entrare nel legno.
E poi?
Poi, con la società industriale, che ha ammassato un numero di persone che prima lavoravano come artigiani in un muro di cinta, è nata la fabbrica, con tanto di organizzazione taylorista e poi fordista nella catena di montaggio. Qui è l’origine dei concetti di produzione e di produttività. E questo era diventato il “lavoro”. Ma si trattava di attività che, per la loro semplicità e ripetitività, deprivavano le persone della loro intelligenza. Erano un’immane gabbia, come diceva Max Weber.
Poi le cose sono cambiate.
Sì. I macchinari sono diventati più sofisticati e hanno incorporato sempre più funzioni. È aumentato il bisogno di specializzazione per poter creare e utilizzare le macchine stesse. Questo ha favorito una riorganizzazione del lavoro: agli operai sono state affidate mansioni più complesse, cercando di venire incontro al bisogno di “intelligenza” dell’essere umano. Anche se poi tutto è stato rivoluzionato, all’inizio degli anni ’70, con l’arrivo del computer. Questo ha comportato un riassetto generale del mondo del lavoro nelle fabbriche: se all’inizio, a metà ottocento, il 6% era dedito a lavoro intellettuale – chiamiamolo così – il 94% svolgeva lavoro manuale. Ora il 70% fa lavori non fisici, e a farlo è solo il 30%. Diciamo che le cose sono cambiate.
Però la parola è rimasta la stessa.
Esatto. A mio avviso, invece, vanno distinte almeno altre due tipologie: si dice lavoro, ma si intende il lavoro fisico, cioè l’operaio – ma anche l’idraulico – e questo è il 30% del mondo del lavoro attuale. Si dice lavoro, ma si intende il lavoro intellettuale e creativo, e penso a giornalisti, scrittori, architetti, studiosi, scienziati, ingegneri. E infine si dice lavoro, ma si intende un altro tipo di attività intellettuali ma ripetitive, come la commessa, l’impiegato di banca o di altri istituti, il segretario. Questi ultimi hanno in comune con la seconda categoria il fatto di essere comunque attività non fisiche, e con la prima di essere ripetitive. Ecco, queste sono le macrocategorie. E servirebbe una parola diversa per ognuna.
Lei ne ha in mente qualcuna?
Al momento, per il lavoro intellettuale, parlerei di “ozio creativo”. Che poi è quello che sta facendo lei, con questa intervista. Un’operazione che richiede sì lavoro, perché sta svolgendo un’attività, ma anche studio, perché sta comunque riflettendo e imparando cose nuove. E poi anche divertimento. Non voglio chiamarlo lavoro, perché non ha nulla a che vedere con il lavoro del minatore, o del cinese che costruisce iPod. È un problema antico: come diceva Conrad: “come faccio a dire a mia moglie che quando guardo alla finestra, io sto lavorando?”. Per uno scrittore, ad esempio, la ricerca dell’ispirazione è parte integrante, anzi direi fondamentale, della sua attività, o del suo lavoro.
Chiaro. Ma adesso veniamo alla produttività.
La produttività, appunto, è la formula di Taylor, per cui la quantità di prodotti viene divisa per il tempo umano impiegato per farli, e definisce l’efficenza. Una formula che è nata nelle fabbriche, e che ora vale per il 30% dei lavoratori, cioè quelli che si dedicano al lavoro fisico. Ma vale solo lì. Non ha senso, invece, applicarla negli uffici.
E perché no?
Perché gli uffici sono una specie di pantano, soprattutto per la creatività, ci sono riti distruttivi e ripetitivi che uccidono le idee. Quelle vengono altrove, in altri momenti. Al cinema, passeggiando, mangiando un gelato, stando con il proprio partner. L’ufficio non è fonte di creatività.
Ma nemmeno quelli della Silicon Valley, con giochi, piscine e aree di relax?
Ma no, quelle sono paraculate! Un modo subdolo che l’azienda utilizza per portare dentro tutto quello che c’è fuori, e quindi non fare uscire i suoi dipendenti. Preferiscono tenere creativi mediocri dentro che averli più brillanti, ma fuori dal loro controllo. Stare in ufficio, ormai, è un rito con una sua intrinseca comicità. Lei, che è in redazione e mi intervista, avrà senz’altro una sua divisa di lavoro, in un certo senso. Io, che in questo momento sto lavorando con lei, sono in mutande e davanti a me ho il mare. È comico, no?
Eh, non me lo dica.
È comico fare cose nuove con metodi vecchi, che poi è il senso profondo di questa crisi. Pensi che nei paesi latini – e intendo Italia, ma anche Spagna e Grecia, e America Latina – c’è l’abitudine a stare due o tre ore in più in ufficio. Si dovrebbe uscire alle sei, e invece si rimane fino alle sette, o alle otto. Una cosa buona? Per niente. Non si resta in ufficio per amore del lavoro, ma semmai per odio del mondo esterno, della famiglia, della società. Una cosa che rovina tutto: in Germania, se si deve uscire alle cinque, si esce alle cinque. E in questo modo si porta il proprio know-how fuori, nel mondo della famiglia, del circolo, degli amici. Si diffonde di più, si lega meglio. Si sta meglio. Ma non solo.
Continui.
Sono almeno due milioni gli italiani che si attardano in ufficio. Un monte ore altissimo, che potrebbe creare 500 mila posti di lavoro. Non è solo tempo buttato, dal momento che non si tratta di zelanti stakanovisti, ma messi insieme, si traduce anche in posti di lavoro bruciati. Spesso quelli dei propri figli.
Ma allora come si può applicare la produttività al lavoro intellettuale?
In teoria si dovrebbe poter guardare al numero di idee avute in un preciso arco di tempo. Ma è una cosa impossibile e ridicola: le idee non sono controllabili nel tempo. Ogni tentativo, ogni metodo di calcolo per il lavoro intellettuale, dall’architetto al giornalista, se basato su questi sistemi, è destinato all’insuccesso. Non funziona, non serve a nulla.
E allora come si fa?
Semplice: spostando la questione dalla quantità alla qualità. Una cosa che cambia tutto. E allora si vedrà che la qualità è direttamente proporzionale a motivazione e intelligenza. O meglio, alla somma tra intelligenza (che è quella che ognuno si trova, e non si può fare molto per cambiarla), professionalità (che è invece la formazione, il know-how di ogni individuo) e la motivazione. Allora, visto che sull’intelligenza di ciascuno non si può intervenire, restano le altre due aree: la formazione, che purtroppo in Italia viene fatta molto nel privato e pochissimo nel pubblico, in modo anche inefficace e inutile, e soprattutto la motivazione.
Allora la domanda si sposta: come si fa a motivare?
Anche qui, ci sono stati 50 anni di studi. E il risultato, per essere sintetici, è questo. Prima si pensava che esistessero due tipi di lavoratori: quelli “motivati”, e quindi collaborativi, e quelli “demotivati”, e quindi conflittuali.
E adesso?
Adesso se ne distinguono – sempre in sintesi – tre: a motivati e demotivati si aggiungono i “neutri”, che non sono conflittuali ma che non fanno nulla di più della sufficienza. Non solo: si è capito che i metodi per trasformare un lavoratore demotivato in un lavoratore motivato sono diversi da quelli che servono per trasformare un lavoratore demotivato in un lavoratore neutro.
Cioè?
Per diventare neutro, per esempio, può servire un aumento di stipendio. O fornire servizi più efficienti, come la mensa o il parcheggio. Tutte cose comode che vengono apprezzate. Ma che non bastano a far diventare motivati i lavoratori. Per capirsi, non è che se continui a dargli più soldi, lui diventa più motivato. E non funziona nemmeno se, invece di una mensa, se ne forniscono tre. È chiaro, no?
Certo. E allora – ancora – come si fa ad avere lavoratori motivati?
Così: serve stimolare la loro creatività. E affidare incarichi di responsabilità. E, soprattutto, il coinvolgimento e la partecipazione nelle decisioni generali. I lavoratori devono anche avere la certezza della carriera, che significa, per loro, sapere che se si lavora bene, si sarà premiati e, al contrario, non si sarà premiati. Nessuno spazio a raccomandazioni e favoritismi. E poco, pochissimo controllo.
Perché?
Perché il legame tra controllo e demotivazione è fortissimo. Più un lavoratore è sottoposto a controlli continui, richiami del capo, insistenze, più è demotivato. Ancora di più, poi, se il controllo è burocratizzato. Io l’avevo detto a Brunetta che inserire i tornelli negli uffici della pubblica amministrazione non sarebbe servito a nulla, e che anzi avrebbe avuto effetti deleteri. Ma lui non mi ha ascoltato. E si è visto.
Ma non è solo una questione di lavori e di attività. Conta anche la convinzione di star facendo qualcosa di importante.
Certo: questo poteva valere per gli impiegati dei grandi uffici, anche anonimi, della Russia sovietica: loro credevano nel sistema ed erano motivati nelle loro operazioni, anche se molto limitate. Ma anche per le suore che vanno nei lebbrosari. Le ideologie, in questo senso, sono fondamentali. Vede, è sbagliato celebrare come un successo la fine delle ideologie: piuttosto, è stato uno dei più grandi harakiri dell’umanità.
Ideologie a parte, come si spiega questo ritardo nel concetto di produttività?
Sono idee che impiegano tempo a penetrare nella società. Ci sono preconcetti, convinzioni sbagliate dure a morire, si ragiona per categorie stagne. Pensi a tutti quegli articoli sui lavoratori tedeschi a confronto con quelli italiani, che non hanno nessun senso. Come si può mettere insieme una badante e un pilota? O un architetto e un vetraio? Che senso ha? Che cosa mi fa capire di più della realtà? Nulla. Eppure è proprio con queste cose, cioè insistendo su percorsi di formazione, di motivazione e non di produttività, intesa in senso antiquato, che si può uscire davvero dalla crisi. Questa è la via, non ce ne sono altre, e mi sembra lampante.
Sembrerebbe di sì. La ringrazio, intanto, per la sua disponibilità.
La ringrazio anche io, e buon lavoro. Anzi, buon ozio creativo.

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