Il desolante silenzio sul Tibet in fiamme

mag 20, 2014 3 comments

Di Francesco Pullia

 In Tibet si brucia. Anche in questi giorni. Nel quasi totale silenzio dell’informazione, sono arrivati a 131 i tibetani che negli ultimi cinque anni hanno deciso di sacrificare la propria vita con il fuoco per denunciare al mondo intero la repressione attuata dalla Cina nel loro paese. Le fiamme si alzano, i corpi si anneriscono. Il pensiero inevitabilmente corre al lontano 1963, al monaco vietnamita che nel centro di Saigon si immolò per protestare contro la politica di discriminazione religiosa del proprio governo. Un inferno durato circa un quarto d’ora, senza grida, senza lamenti, che allora scosse l’opinione pubblica. Le sconvolgenti immagini del martirio fecero il giro dei quattro angoli del pianeta. Trentacinque anni dopo, ma in un altro contesto, un analogo gesto. A New Delhi, Pawo Thupten Ngodup, uno dei centomila esuli tibetani riusciti fortunosamente a raggiungere l’India, militante del Tibetan Youth Congress (un’organizzazione giovanile che rivendica l’indipendenza del Tibet dal mostro cinese), anziché consegnarsi alla polizia indiana, che voleva obbligarlo a smettere uno sciopero della fame protrattosi da una cinquantina di giorni, preferì trasformarsi in una pira. Speravamo rimanesse un caso isolato. Purtroppo non è stato così. Sono tanti, troppi, i giovani, monaci o laici, che, con un incremento dal 2009 ai nostri giorni, hanno seguito il suo esempio. Può sembrare assurdo, e difatti lo è, darsi la morte in questo modo atroce. Ma il giudizio diviene meno perentorio una volta che ci si renda conto di quanto sia straziante assistere al genocidio del proprio popolo da parte di un paese straniero, alla tragedia di una terra invasa nel 1950, in spregio al diritto internazionale, dalle truppe della Repubblica popolare cinese e teatro, nella deplorevole inerzia degli stati occidentali, di una spietata colonizzazione.


 Basti considerare che nell’altopiano himalayano culla del buddhismo lamaista, i tibetani sono ridotti ad una minoranza di appena sei milioni, rispetto a quasi dieci milioni di immigrati cinesi. Non è un caso che la Cina si sia spesa nella costruzione della linea ferroviaria più alta del mondo, nota come la Pechino-Lhasa, che arriva a transitare ad oltre 5000 m. sul livello del mare. L’invasione del Tibet da parte dei cinesi non conosce soste e, come una piovra, abbraccia tutto. Se sei tibetano, in Tibet non puoi studiare e parlare la tua lingua, praticare il buddhismo, seguire la millenaria tradizione della tua gente, sventolare la bandiera della terra in cui sei nato (quella con i raggi rossi e blu, il sole splendente, i due leoni di montagna, i simboli che rimandano all’insegnamento buddhista) e tanto meno avere un’immagine del Dalai Lama, il leader religioso e politico, fervente e rigoroso sostenitore della nonviolenza, costretto, come si sa, dai cinesi a fuggire nel 1959 in India, a Dharamsala, nella regione dell’Himachal Pradesh. Se te la trovano addosso o in un angolo della casa, ti spediscono dritto dritto a marcire in galera o in un campo di concentramento. Il processo di annientamento dei tibetani viene scientemente perpetrato dalla Cina tramite la disintegrazione della loro identità, lo stravolgimento di abitudini e costumi, il severo controllo delle nascite (anche con il ricorso alla sterilizzazione e agli aborti forzati), la deforestazione e il depauperamento delle preziose risorse boschive e minerarie, la trasformazione di vaste aree in depositi di scorie radioattive, l’urbanizzazione di numerosi gruppi nomadi abituati da sempre a vivere di pastorizia, l’immissione di colture intensive del tutto estranee alla vocazione del territorio. 
In breve, il Tibet di oggi rischia di sparire, interamente fagocitato da Pechino. Poco dell’inestimabile patrimonio artistico, culturale, religioso, si è salvato dalla furia iconoclasta delle guardie rosse maoiste che, nel 1969, oltre a sottoporre monaci e abitanti ad umilianti processi “rieducativi”, ridussero in macerie più di 6500 tra templi e monasteri. 



Gli occidentali non devono lasciarsi fuorviare dalle attuali finte ricostruzioni: rispondono esclusivamente a una bieca operazione di marketing turistico. Il danno ormai è irreparabile e se una cultura plurisecolare non si è, per fortuna, ancora dissolta lo si deve alla tenace opera dei profughi che, sulle orme del Dalai Lama, sono riusciti a scappare dall’inferno, traversando, in viaggi rocamboleschi, altitudini impervie ricoperte di ghiaccio e piene di insidie. Molti ce l’hanno fatta. Tanti altri, purtroppo, no e sono morti sopraffatti dal gelo e dalla fame o colpiti dalle pallottole dei militari cinesi. Dietro l’immagine macchiettistica, quasi da Disneyland asiatico, che la Cina vorrebbe veicolare del Tibet, ad uso e consumo di sprovveduti occidentali, si cela, in realtà, una tragedia d’immane portata che non può e non deve lasciarci indifferenti.

Commenti

  1. Grande post da leggere e riflettere..
    Questa popolazione inerme è sempre stata dilaniata fin dagli albori..
    Riflettiamo maggiormente su queste cose...:::)))

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  2. Si sà che la cucina cinese è molto varia, il monaco flambé si cosuma con il bigné, il commentatore dovrebbe saperlo!
    Ivan

    RispondiElimina

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