Jacob Boehme, il grande mistico tedesco, reso per principianti

lug 1, 2015 0 comments

Di Cynthia Bourgeault

Per comprendere la splendida e complessa cosmologia di Jacob Boehme, c’è, penso, un segreto di somma importanza: avere la stessa mentalità con cui egli ha ricevuto la sua mistica illuminazione.
Fu in profonda quiete contemplativa che questo calzolaio tedesco, fissando lo scintillio di un piatto di peltro al sole, venne improvvisamente travolto da una visione unificativa che “in un quarto d’ora mi fece vedere e sapere più cose di quante ne avrei imparate in molti anni di università” (vedi nota 1). Passarono dodici anni prima che egli riuscisse a esprimere in parole questa rivelazione cosmica. Ciononostante, queste parole sono – per citare E. E. Cummings – “grosse e contorte, di quando troppo dici, / tenere a bada dovessero lo spirito indifese” (vedi nota 2).
Avvicinarsi agli insegnamenti di Boehme con una mentalità filosofica è semplicemente inutile. Il suo pensiero si muove per salti; in molti punti si contraddice, perché cerca di far esprimere ai concetti le verità afferrate intuitivamente, in un attimo di grande e superiore intuizione.
Boehme è uno dei geni nascosti del misticismo cristiano. Praticamente, non viene letto in alcun seminario cattolico o protestante, e persino i più importanti teologi contemporanei fanno fatica a pronunciare il suo nome (una persona di mia conoscenza lo chiamava Jacob Boheme, come ne La Boheme; in passato, il suo nome veniva talvolta storpiato in “Behmen”). La sua opera è tenuta in vita soprattutto grazie all’interesse continuo della tradizione ermetica cristiana, e a un gruppuscolo di devoti che va da Angelus Silesius, nel diciassettesimo secolo, fino a Evelyn Underhill, nel ventesimo.
Boehme si sarebbe senza dubbio considerato un depositario improbabile della sua sconvolgente rivelazione. Nato in un’umile famiglia nel 1575, presso la città di Görlitz nella Germania sud-orientale, venne avviato alla professione di calzolaio, sposò la figlia di un macellaio, ebbe quattro figli ed esteriormente la sua vita fu sempre tranquilla e convenzionale. Ma interiormente la sua natura contemplativa e sognante si stava preparando a ricevere, nel 1600, quella irresistibile rivelazione e i dodici anni di squilibrio e di ricerca spirituale che ne seguirono.
Alla fine, nel 1612, il suo primo libro, Aurora, era finito. Esso cadde subito nelle mani di Gregorius Richter, pastore di Görlitz, che attaccò violentemente Boehme accusandolo di eresia e facendo in modo che venisse promulgato un decreto che gli vietasse di scrivere per cinque anni. Tuttavia, il suo lavoro continuò a circolare tra l’intellighenzia di Görlitz, facendogli guadagnare molti ammiratori, soprattutto tra gli studenti della filosofia ermetica e del misticismo. Nel 1619 Boehme prese di nuovo in mano la penna, e nei cinque anni che precedettero la sua morte (avvenuta nel 1624) completò tutte le sue opere principali.
Ho sempre sospettato che l’attuale preghiera meditativa di centratura, con la sua enfasi sulla quiete interiore, intesa come un accordo profondo con Dio, può fornire una via di accesso esperienziale alla complessa cosmologia di Boehme. La scorsa estate ho avuto la possibilità di verificare questa intuizione con un gruppo di esperti meditatori della preghiera di centratura, nella Columbia Britannica. Il contenuto di questo articolo è soprattutto il risultato dello sforzo del nostro gruppo di penetrare il cuore dell’illuminazione mistica di Boehme attraverso l’esperienza diretta. La mia speranza è che i lettori vengano stimolati ad approfondire questo discorso, dandoci la loro opinione ed eventualmente le loro correzioni.
Il mio scopo è anche quello di cercare di liberare Boehme da quell’aura di “arcaicità” che scoraggia la maggior parte dei lettori. Io stessa mi sono sentita attratta per molti anni da lui (in seguito, ho scoperto che uno dei suoi primi discepoli inglesi, William Law, è un mio lontano antenato), ma mi è sempre stato detto che, senza una profonda conoscenza dell’alchimia medievale, sarebbe stato inutile andare avanti.
L’aspetto alchimistico è certamente presente, e penso che gli inziati all’Ermetismo conoscano Boehme molto meglio di me. Ma l’importanza di Boehme non si limita a questa dimensione, né è accessibile solo al suo interno. Boehme offre una notevole metafisica cristiana unificata, dove la cosmologia e la psicologia si sostengono tra loro in un cammino dal grande potenziale trasformativo. Occorre recuperare questo cammino e presentarlo in modo tale che più persone si sentano stimolate a studiare questo grande veggente, la cui opera, secondo me, contiene ancora la chiave di tutto ciò che il cristianesimo interiore rappresenta (vedi nota 3).
Per me, il significato del lavoro di Boehme si può riassumere a livello macrocosmico e microcosmico nell’idea che la volontà, il desiderio, il dolore e l’angoscia sono il materiale grezzo attraverso cui si fa passare qualcosa di potente e poderoso. Dio è certamente amore, ma l’amore stesso è la conclusione trionfante di un processo i cui fondamenti nascosti ed eterni sono nel desiderio, il dolore e l’angoscia. Quindi, nella mia vita, queste cose non vanno temute o evitate, ma trasformate.
A questo punto, propongo di passare dal noto all’ignoto, usando alcuni concetti familiari, desunti dalla pratica meditativa, che ci aiutino nell’ascesa graduale alla monumentale cosmologia di Boehme.

Il silenzio interiore

1. Lo studente disse al maestro: «Come posso conseguire la vita soprasensibile, in modo da poter vedere e ascoltare Dio?». Il maestro disse: «Se puoi innalzarti per un attimo dove nessuna creatura risiede, puoi sentire ciò che Dio dice».
2. Lo studente disse: «Questo luogo è vicino o lontano?». Il maestro rispose: «È dentro di te. Se riuscissi a mettere a tacere ogni desiderio e pensiero per un’ora, udiresti le ineffabili parole di Dio».
3. Lo studente disse: «Come posso mettere a tacere il pensiero e la volontà?». Il maestro rispose: «Quando i pensieri e i desideri dell’io fanno silenzio, ti si riveleranno la vista, l’udito e la parola eterni… Il tuo udito, la tua volontà e la tua vista ti ostacolano, impedendoti di vedere e sentire Dio» (vedi nota 4).
Questi tre piccoli versi dal sesto trattato di Boehme (Sulla vita soprasensibile) sono il punto di partenza per il viaggio esperienziale all’interno di Boehme. Sono certa che la maggior parte dei lettori avrà già una solida esperienza meditativa, e che grazie a una tecnica o l’altra è in grado di distinguere tra “l’udito, la volontà e la vista” personali e “l’udito, la vista e la parola eterni” (vedi nota 5).
Nei suoi insegnamenti sulla preghiera di centratura, il monaco benedettino Thomas Keating definisce questi due stati come “consapevolezza ordinaria” e “consapevolezza spirituale”. La consapevolezza ordinaria è il nostro consueto miscuglio di pensieri, sensazioni e reazioni alimentati dalla natura autoriflessiva della mente umana; i buddisti la chiamano la “mente scimmia”. Nella consapevolezza spirituale, la mente va al di là del suo interesse per i contenuti dei suoi stessi pensieri, giungendo a “riposare in Dio”. Mentre i contenuti possono apparire vuoti, si fa esperienza di un livello di intensità, coerenza e intenzionalità più elevato di quello raggiungibile attraverso le nostre normali modalità di pensiero. I praticanti spirituali scoprono talvolta di poter passare in generale dalla profonda quiete interiore alla giusta azione, senza dover fare ricorso al consueto pensiero lineare. Questa è la chiave per capire ciò che intende Boehme con l’essere “nella volontà di Dio”.
Il primo passo per avvicinarsi a Boehme, dunque, è fare esperienza di quell’«udito, vista e parola» più elevati che sono in me. Questo livello più vitale è, in un certo modo, più vibrante, essenziale e carico di vita intenzionale; può riversarsi misteriosamente dentro di noi quando, per usare la pittoresca espressione di Annie Dillard, “non sprechiamo la nostra energia dicendo «ciao» a noi stessi a ogni minuto di veglia”.

La volontà rassegnata

“L’autentica rassegnazione”, titolo del quarto trattato di Boehme ne La via a Cristo, è forse il concetto cardine di tutta l’opera di Boehme, il punto di contatto tra la semplicità del suo cammino spirituale e la complessità della sua cosmologia. Anche qui, ho scoperto che la conoscenza esperienziale della “volontà rassegnata” rende possibile la comprensione intuitiva di parti essenziali della cosmologia di Boehme, anche se alcuni dettagli potrebbero continuare a essere oscuri.
Nel nostro gruppo della Columbia Britannica abbiamo cercato a lungo di scoprire parole migliori per questa idea. A molti non piaceva la parola “rassegnazione”, perché evocava loro passività e scoraggiamento. La parola tedesca è “gelassenheit”, che vuol dire qualcosa come calma o lasciarsi andare; ovvero, la calma volontà. Ci avviciniamo più al concetto buddista di equanimità che allo stereotipo occidentale di sottomissione.
Questo concetto non esiste soltanto in Boehme, naturalmente; è il cuore del cammino mistico cristiano. Il modo tradizionale di descrivere questo stato (tanto in contrasto con le tendenze egocentriche della nostra cultura contemporanea) include le espressioni “arrendersi” e “abbandonarsi alla divina provvidenza”.
La preghiera di centratura ci permette di cogliere un significato nascosto di questa “rassegnazione”. Se paragoniamo la “volontà non rassegnata” alla “consapevolezza ordinaria” di Thomas Keating, possiamo osservare che la caratteristica forse più importante di quest’ultima è il fatto che è sempre febbrile. Essa si perde in un flusso costante di reazioni, preoccupazioni e considerazioni emotive (“Sto andando bene?” “Gli altri mi stanno apprezzando abbastanza?”).
Al contrario, la “calma” (“gelassenheit”) della consapevolezza spirituale non sembra tanto una diminuzione dell’io, quanto una vasta e allargata spaziosità interiore nella quale il sé autentico può alla fine venire alla luce. Come scrive Boehme, il segreto della vera rassegnazione è questo: “Essa non ti uccide, bensì ti rende vivo secondo questa vita. Allora tu vivi, anche se non sei tu, e la tua volontà diventa la sua volontà” (vedi nota 7). Avviene un “dimorare” totale, grazie al quale “la vista, l’udito e la parola eterni” diventano il cuore funzionale del tuo essere, “la vita della tua natura”.
Questo concetto ci dà un’idea della sottigliezza del pensiero di Boehme, oltre che della sua abilità nell’aggirare i tipici punti morti del cristianesimo. Per Boehme, la rassegnazione autentica non è un tema morale (“l’indisciplinata volontà dell’uomo”, come ai teologi piace lamentarsi), ma ontologico: si trova nella natura della mente stessa, grazie alla sua capacità di consapevolezza autoriflessiva. Boehme vede la mente come una sorta di lente d’ingrandimento che, per via della libertà della volontà umana, può essere rivolta in due direzioni: verso il Divino, in modo da “esaltare il Signore” (secondo le parole dell’antico cantico), oppure verso se stessi. Essenzialmente, essa diventa la sua stessa luce.
Boehme si lamenta nel quarto trattato: “Vediamo in Lucifero, e anche in Adamo, esempi genuini di quello che fa l’io quando considera la luce esterna una sua proprietà, sì da farla rientrare nel dominio della sua ragione. Questo è visibile anche negli eruditi: quando considerano la luce della natura eterna un loro possesso, il risultato non è che orgoglio” (vedi nota 8).
Ecco un punto cruciale per comprendere Boehme. Quando si volge quella lente verso l’interno, verso l’io, il risultato è la “moltiplicazione” dei desideri, delle passioni, delle aspirazioni, e la generale frammentazione della consapevolezza. Questo io insaziabile (che Boehme definisce “solo un’arida e angosciosa fame”, vedi nota 9) cerca freneticamente di riflettersi e vedere se sesso nell’essere. Solo quando quella lente “si rassegna” e viene tenuta saldamente rivolta verso l’alto per riflettere la luce divina, è possibile l’emersione dell’essere autentico dell’anima, che è l’amore. Come scrive Boehme nel sesto trattato:
“Lo studente disse: «Caro Maestro! Dimmi: dov’è [l’amore] nell’uomo?». Il Maestro rispose: «Dove l’uomo non risiede, quello è il suo posto». Lo studente disse: «Qual è il luogo in cui l’uomo non risiede in se stesso?». Il maestro rispose:«Esso è l’anima che si rassegna, portata al suolo. Laddove l’anima muore alla sua volontà e non desidera nulla più che la volontà di Dio, là sta l’amore. Nella misura in cui la volontà egoistica è morta a se stessa, esso prende per sé il posto prima occupato da tale volontà. Adesso in quel punto non c’è nulla, e dove non c’è nulla, è all’opera l’amore di Dio” (vedi nota 10).
È evidente come tutto ciò sia diverso dalla corrente principale del cristianesimo, dove l’uomo è considerato l’interprete della volontà divina. Dotato di ragione, memoria e talento, egli usa tutto ciò per riconoscere la volontà di Dio e agire di conseguenza.
Per Boehme, le cose sono molto diverse. Essere nella volontà di Dio, essere nella volontà rassegnata, è un’apertura immediata e diretta, a livello energetico, alla Fonte di tutto l’essere. È un impegno a non volgere la lente verso l’interno, nonspezzare il legame con “l’udito, la vista e la parola” eterni. Questo vuol dire essere nella volontà di Dio. Tutto il resto viene da Boehme severamente criticato: “Nessun lavoro esterno alla volontà di Dio può raggiungere il regno di Dio. Tutto è solo un futile intaglio nella grande laboriosità dell’uomo… Non è altro che uno specchio della contrastante ruota della natura, in cui il bene e il male si contrastano tra loro. Ciò che il bene edifica, il male distrugge; e ciò che il male edifica, il bene distrugge” (vedi nota 11).
La “volontà di Dio”, secondo Boehme, è allora più o meno equivalente a quella che gli antichi ebrei chiamavano la “giustizia di Dio”: un campo carico di energia, non un astratto modello morale. È necessario trovare la propria via a questa volontà “energizzata”, e poi tenervi fede, astenendosi da qualsiasi azione in contrasto con essa, oltre che dai propri bisogni, desideri e volontà.
L’obiettivo di questo sforzo non è la rinuncia o la penitenza, ma qualcosa di infinitamente più potente. Infatti, solo al di là delle tempeste del caos personale si trovano il profondo potere dell’amore, la Fonte e il centro autentico. Boehme afferma: “Se lo trovi, arriverai a quel fondo da cui scaturiscono e in cui stanno tutte le cose, e sarai in esso come un re sopra tutte le opere di Dio” (vedi nota 12).

La pratica dell’abbandono

“Qui e ora è il posto giusto per lottare davanti a Dio. Se resti saldamente in piedi, senza piegarti, vedrai e sperimenterai grandi meraviglie. Percepirai Cristo imperversare nel tuo inferno, facendo a pezzi la tua bestia” (vedi nota 13).
Questo testo, tratto dall’ottavo trattato di Boehme (Conversazione tra un’anima illuminata e una priva di luce) è fondamentale per due ragioni. È la parte centrale dell’attività spirituale per giungere alla volontà rassegnata. È anche, credo, la chiave che apre i “tre principi dell’essenza divina”, formando il cuore della cosmologia di Boehme.
Anche qui, gli studenti della preghiera di centratura godono di un punto di partenza esperienziale. La pratica descritta nel testo di Boehme ha una forte somiglianza con la pratica del “lasciarsi andare” (anche detta “mente aperta – cuore aperto”) sviluppata dalla collega di Thomas Keating, Mary Mrowzowski, per riconoscere e abbandonare i “programmi emotivi per la felicità”, quelli che tradizionalmente vengono chiamate “passioni” o, per usare le parole di Boehme, “creature”.
Il corso, aperto a tutti gli studenti avanzati della preghiera di centratura, offre un processo in tre fasi che unisce le moderne tecniche di focalizzazione alla pratica tradizionale dell’«abbandono alla volontà di Dio». Quando sorge un’emozione spiacevole, si impara a mettere a fuoco, o a penetrare nell’emozione sperimentandola profondamente e non-verbalmente nel corpo; a darle il benvenuto, riconoscendo che ogni sentimento che accade dentro di me, in questo momento, può essere sopportato o compreso; e infine, nei limiti del possibile, alasciarla andare.
Non molto tempo fa, una mia amica ha avuto un’inattesa opportunità per lavorare con questa pratica. Era appena rimasta vedova ed era molto spaventata dal suo stesso dolore. Saggiamente, si era iscritta a una classe di aerobica per le cinque del pomeriggio, l’ora del cocktail, che in passato costituiva un momento di speciale intimità con il marito. Ma una sera arrivò dall’Atlantico una violenta tempesta che coprì le strade di ghiaccio e interruppe le linee elettriche.
Lei rimase sola con il suo dolore. Terrorizzata, cominciò il primo stadio della pratica, entrando profondamente nei suoi sentimenti e facendo esperienza dell’ansia, il dolore e l’agitazione dovuta alla sua impotenza. Semplicemente, vedeva in quale punto del corpo erano presenti queste emozioni. Nello stadio successivo, cominciò a sussurrare: “Benvenuto, dolore… Benvenuto”. “E a quel punto”, mi ha raccontato, “è successa una cosa straordinaria. Il dolore opprimente sembrò andarsene, mentre una nuova presenza entrava in me. Un istante prima ogni cosa era intollerabile; ora, non più. Era tutto molto semplice”.
“Se resti saldamente in piedi, senza piegarti”, dice Boehme. Cioè, se sei incondizionatamente presente in questo momento, a prescindere dall’emozione che stai vivendo, “percepirai Cristo imperversare nel tuo inferno, facendo a pezzi la tua bestia”. Ciò che Boehme descrive qui in modo colorito, ma anche (ne sono convinta) letterale, è la discesa di un nuovo potere, una nuova forza spirituale provocata dal processo dell’abbandono stesso. “Rinunciando” alle nostre angosciate “creature”, Cristo si attiva misteriosamente al centro della nostra vita.
Coloro che affrontano questa pratica sono ben consapevoli del suo potere. È il cammino più efficace che conosco per unire l’armonia interiore della preghiera meditativa alla necessità di una presenza totale nella vita quotidiana, in modo che la “preghiera senza fine” diventi una realtà vissuta. Ma al di là di questo, la pratica del versetto di Boehme nella vita quotidiana, se accompagnata da un’attenta auto-osservazione, ci dà i dati esperienziali necessari per cominciare a penetrare il complesso universo cosmologico di Boehme.
Ritorniamo alla mia amica del Maine e analizziamo meglio l’istante in cui “lotta davanti a Dio”. Osservando attentamente, è possibile isolare tre distinte componenti della tempesta emotiva al suo interno. Innanzitutto, c’è il desiderio ardente del marito. La seconda è una sorta di “infiammazione interiore” provocata dalla consapevolezza che il suo desiderio è irrealizzabile, fatto che lo rende ancora più forte e doloroso. Il risultato, la terza componente, è l’angoscia: lei è scossa e agitata interiormente da una passione insaziabile.
In tale stato di agitazione, subentra una quarta componente, provocata dalla pratica stessa dell’abbandono. Questo “sprofondarsi”, per usare il termine di Boehme, o abbandonarsi nell’emozione stessa, serve a chiamare in aiuto determinate forze, come la luce di Cristo che nasce in mezzo all’oscurità. L’agitazione è inevitabilmente il luogo in cui nasce la nuova quiete; in modo strano ma necessario, essa fornisce il carburante per la trasformazione.
Se riesci a distinguere chiaramente questi stadi nel processo, possiederai la sostanza dei “tre principi dell’essenza divina” di Boehme.

Il primo principio

Nell’intricato splendore della sua mente, Boehme pone la domanda che pochissimi hanno mai sollevato: come è possibile passare dal Dio a riposo, dall’«eterna, immensa e inintelligibile Unità» (vedi nota 14) al Dio autore della multiforme diversità che è il nostro universo creato e percepibile? Cosa sarà successo internamente, nelle profondità di Dio, prima che il primo “Fiat” venisse pronunciato? Boehme ci conduce attraverso un sistema di tre principi, suddivisi in sette proprietà (talvolta chiamate “forme”), che occupano lo spazio tra la luce inaccessibile e quella accessibile. Essi restano presenti anche nel nostro universo come l’albero motore di tutti i processi temporali, osservabile nei nostri sforzi e in tutta la vita creata.
Prima proprietà. Secondo Boehme, prima che un ente qualsiasi possa venire alla luce, deve esserci un movimento (un “efflusso”) nell’Unità infinita della divinità. Questo si ottiene creando una “pressione diseguale” nell’equilibrio della volontà divina tramite la concentrazione del desiderio. Come dice Boehme: “La prima proprietà è la brama, come il magnete, vale a dire, la compressione della volontà [divina]; la volontà desidera essere qualcosa, ma non ha nulla di ciò con cui potrebbe fare qualcosa a se stessa; quindi, porta se stessa in uno stato di ricezione di sé, e si comprime in qualcosa; quel qualcosa non è altro che una fame magnetica, una durezza” (vedi nota 15).
Boehme definisce la prima proprietà “asprezza”, “bruschezza”, “acredine”, “durezza”. La componente principale è la brama, “fame magnetica”.
Seconda proprietà. Quando c’è una pressione diseguale, qualcosa comincia a fluire, come si può osservare nell’acqua in un sifone, nel vento o nelle condizioni metereologiche. Boehme identifica questa “trazione o movimento nella durezza” (vedi nota 16) come la seconda proprietà, che chiama il “movimento”, lo “scuotimento” e talvolta anche il “pungolo” o “qualità astringente”.
Qui è importante osservare attentamente cosa sta dicendo Boehme. Ho letto molti commentatori che paragonano (piuttosto liberamente) queste prime due proprietà al classico dualismo spirituale dell’affermazione e della negazione. Ma per Boehme la seconda proprietà non è, strettamente parlando, la negazione. Piuttosto, essa si avvicina a un’infiammazione, un’agitazione creata dentro e attraverso l’insaziabilità stessa del desiderio.
Questo lo abbiamo visto nella mia amica del Maine. Nel suo caso, la prima proprietà è il desiderio per il marito morto. La seconda, provocata dall’inevitabile frustrazione di quel desiderio, è il moto (o, in questo caso, l’emozione), l’ardere della fiamma del desiderio con intollerabile intensità. È un punto sottile, ma importante. In Boehme la seconda proprietà non è opposta alla prima, in quanto sta correndo verso di essa, come un mulinello è risucchiato dallo scarico. Quel mulinello è il movimento, ovvero la seconda proprietà.
Terza proprietà. Questo ci porta direttamente alla terza proprietà, che Boehme definisce “l’angoscia”. Spiega: “Infatti, quando c’è un moto nella durezza, la proprietà è il dolore [o l’angoscia], e questo è causa anche di sensibilità e sofferenza. Se non vi fossero durezza e movimento, non vi sarebbe sensibilità”.

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