La Cina che crede, un revival religioso e spirituale dall’alto

ott 29, 2015 0 comments
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Toy Buddha, Russ Morris

Di Ester Bianchi
Parallelamente agli sviluppi politici, alla crescita economica e ai cambiamenti sociali – e forse in parte come reazione agli stessi – la Cina Popolare sta vivendo oggi un generalizzato revival religioso che coinvolge in modo diverso città e campagna, le varie tradizioni, i gruppi etnici, le tante zone geografiche, le generazioni e i diversi ceti sociali.






 Si tratta di un fenomeno che, seppure meno evidente rispetto alla modernizzazione della Cina, chi visita oggi il Paese non faticherà a riconoscere. Benché il revival sia apprezzabile anche in ambienti cristiano-cattolici e musulmani, si farà qui riferimento esclusivamente al Buddhismo e al Daoismo, perché a essi si ricollega il 90% di chi, in Cina, professa una qualche fede religiosa. A questi cittadini che manifestano apertamente e inequivocabilmente il proprio credo, si sommano poi tutti coloro che, pur non dichiarandosi atei, non si sentono di riconoscere formalmente la propria appartenenza a una delle chiese ufficiali.

Il “Documento 19”: la religione scomparirà con la maturazione del socialismo

La libertà di credo fu sancita dall’articolo 5 del Programma comune adottato dalla Prima conferenza politica consultiva del popolo cinese (settembre 1949) e riproposta nelle varie edizioni della Costituzione, per quanto sia stata disattesa in diversi momenti del periodo maoista. L’idea che la religione fosse un fenomeno temporaneo che si sarebbe esaurito spontaneamente con il superamento di determinate contraddizioni sociali permise inizialmente la sopravvivenza delle attività religiose che non fossero d’intralcio ai programmi di governo. Tuttavia, tra gli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta, il numero dei luoghi di culto buddhisti e daoisti calò sensibilmente, passando da 60.000 a circa 8.000 unità. Qualsiasi forma di libertà di credo cessò durante la Rivoluzione Culturale, quando i religiosi furono costretti a tornare al secolo e gran parte del patrimonio culturale e religioso fu gravemente danneggiato quando non irrimediabilmente distrutto.

Alla fine degli anni Settanta è stata inaugurata una nuova fase storica per le religioni cinesi, giunta significativamente assieme all’ammissione ufficiale del declino della lotta di classe. La nuova politica è stata promulgata nel 1982 dal “Documento 19” del Partito comunista cinese (PCC), che dichiara controproducenti le politiche repressive nei confronti della religione e propende per una linea di tolleranza spiegata sul piano ideologico con l’assunto che la religione scomparirà da sé non appena sarà maturata la società socialista. Si noti che ai membri del partito non è comunque concesso di aderire a una qualche religione, benché secondo Richard Madsen una discreta percentuale degli stessi (15%) si dedichi privatamente a pratiche religiose.

La libertà di pratica e culto è garantita alle istituzioni afferenti a una delle religioni ufficiali (Buddhismo, Daoismo, Islam, Cattolicesimo e Protestantesimo), tutte sottoposte al ferreo controllo dello Stato (presente sul territorio attraverso una rete di associazioni religiose e uffici governativi) e tenute a professare la propria lealtà alla patria, come bene esemplificano i ‘cartelli patriottici’ con la scritta “Ama il paese, ama la religione” (ai guo ai jiao 爱国爱教) spesso affissi all’interno di monasteri, templi e luoghi di culto autorizzati della RPC.
Le nuove politiche hanno portato a immediati sviluppi già nel corso degli anni Ottanta e Novanta. I risultati a lungo termine si sono rivelati negli anni 2000, quando si è avuto un aumento esponenziale del numero dei credenti, che può essere letto anche alla luce di un cambiamento di attitudine nei confronti della propria fede da parte di molti cinesi. Questo almeno sembra trasparire dai pochi sondaggi disponibili.
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酥油灯房 / Room of Prayer lamps, randomix

Tra reticenza e sincretismo, l’impossibilità di una mappatura dettagliata

Contare i devoti delle religioni cinesi non è un’impresa semplice. Innanzitutto, almeno fino a pochi anni fa, le autorità governative erano piuttosto reticenti a fare un censimento dei credenti. In secondo luogo, molti cinesi non osano ancora dichiarare apertamente la propria fede, vuoi perché le repressioni del periodo maoista sono sentite come troppo vicine, vuoi perché continua a sussistere il divieto per i membri del Partito di dichiarare la propria fede. La terza ragione, su cui tornerò in seguito, è legata alla natura del sentimento religioso dei cinesi, che spesso non si riconoscono in una specifica fede e partecipano a pratiche e riti diversi a seconda delle circostanze.
Fino a pochi anni fa le stime ufficiali volevano che vi fossero in Cina circa 100 milioni di fedeli nelle cinque religioni ufficiali. In altri termini, si riteneva che i credenti fossero fra l’8% e il 10% della popolazione. La svolta si è avuta nel 2007, quando un’indagine condotta dalla Huadong shifan daxue 华东师范大学 di Shanghai ha rivelato che il 31,4% dei cittadini con un’età maggiore ai 16 anni si considerava religioso; questa stima, che alzava il numero dei credenti a circa 300 milioni di persone, è stata in seguito confermata e fatta propria dalle autorità governative. Infine, nel 2010 l’Accademia delle Scienze Sociali di Pechino ha reso noti nel “Libro blu sulle religioni” i risultati di nuovi sondaggi, secondo cui solo il 15% dei cinesi si dichiarerebbe non-religioso (a fronte del 59% del 1993, dati Philip Zuckerman). Ne consegue che l’85% della popolazione cinese pratica una qualche forma di religione. Degno di nota, in questo contesto, anche il netto aumento delle ordinazioni monastiche, che stanno gradualmente riportando la percentuale dei religiosi ai numeri della prima metà del XX secolo.
Questi dati, benché parziali, rimangono significativi perché lasciano intravedere l’entità del revival delle religioni, un fenomeno che non può più essere considerato marginale e trascurabile da chi si occupi della Cina contemporanea.

Culti tradizionali e stabilità sociale, un binomio che non dispiace al PCC

A prescindere da considerazioni generiche sul ruolo delle politiche meno repressive nei confronti delle religioni o sulla generalizzata crisi ideologica prodottasi in seguito all’apertura all’economia di mercato, è evidente che il revival del Daoismo, del Buddhismo e dei culti locali si inserisce nel contesto del rinvigorimento della tradizione del passato in atto nella Cina contemporanea.
Il recupero di forme culturali dotate di un forte carattere identitario è osservabile nei più svariati ambiti e, come sottolineato da Maurizio Scarpari, caratterizza anche molte delle scelte politiche recenti. In altri termini, senza nulla togliere alla componente spontanea e proveniente ‘dal basso’ del fenomeno del revival delle religioni, è evidente che esso è sostenuto, quando non voluto e alimentato, dal governo centrale e da quelli locali.
Per tutti gli anni Novanta del secolo scorso e in modo ancora più forte in questo inizio di secolo, la leadership della Cina sembra avere considerato positivamente la crescita delle religioni tradizionali cinesi, riconoscendo in esse elementi di stabilità sociale. Più nello specifico, nel discorso politico attuale le religioni sono rivalutate sulla base del loro potenziale ruolo nella creazione di una “società armoniosa”. Buddhismo e Daoismo sono definiti ‘pilastri della tradizione cinese’ e sono oramai considerati settori importanti del patrimonio culturale nazionale.
Questioni di ordine economico non sono estranee al fenomeno qui analizzato. Mi riferisco in particolare alle entrate garantite dal turismo religioso, capace di muovere ingenti capitali anche dall’estero, o alle donazioni dei laici, che sono spesso re-investite dai religiosi in opere socialmente utili (orfanotrofi, case di riposo per anziani, ospedali, donazioni in caso di calamità ecc.), rivelandosi di grande utilità per i governi locali.
Infine, André Laliberté ha messo in luce anche la potenziale efficacia delle religioni tradizionali cinesi nella gestione dei rapporti con Taiwan e, per quanto concerne il Buddhismo, nei rapporti diplomatici con gli altri stati asiatici di fede buddhista.
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Nel tempio buddhista “Longhua” di Shanghai, Michelangelo Cocco

Modalità e contenuti del rinascimento, le pratiche “superstiziose”

Il revival delle religioni riguarda prevalentemente il Buddhismo e il Daoismo istituzionali, che si riconoscono nelle rispettive Associazioni nazionali. D’altro canto, negli ultimi anni si è registrata anche una ripresa della religione popolare e dei culti locali, con un’evidente ridefinizione dei confini che separano le pratiche religiose dalle “superstizioni”.
Quest’ultimo aspetto ci porta a interrogarci sul concetto stesso di zongjiao 宗教 (“religione”), un termine di origine occidentale e di per sé fortemente connotato, che definisce la religione come un sistema strutturato di credenze e di pratiche, e implica appartenenza esclusiva a una specifica chiesa. Se è vero, come ha osservato Vincent Goossaert, che la sua introduzione ha determinato un cambiamento nel modo di intendere e vivere la fede per molti cinesi, d’altro canto sussiste ancora in Cina un generalizzato atteggiamento non-esclusivista nei confronti delle proprie pratiche e credenze religiose.

Nella Cina tardo imperiale la religione aveva sede nei templi locali e includeva, senza per questo volerli fondere, Buddhismo e Daoismo, ritualità confuciana e culti locali. Ovviamente Buddhismo e Daoismo erano già delle vere e proprie religioni istituzionalizzate, dotate di un clero organizzato, di una propria liturgia, di un canone scritturale e di centri d’ordinazione e formazione. Qui, religiosi e laici adottavano forme di appartenenza esclusiva e potevano essere considerati buddhisti o daoisti in senso stretto.
Significativamente, in epoca recente in templi e monasteri si è assistito a un sempre maggiore coinvolgimento attivo del laicato, pronto a manifestare un legame esclusivo con un dato lignaggio o con una specifica religione attraverso la devozione al maestro e/o l’accettazione di specifici precetti. Sebbene questo fenomeno possa essere considerato per certi versi radicato nel passato, l’entità che ha assunto di recente deve molto all’affermazione in Cina di idee moderne e occidentali sull’appartenenza religiosa. È soprattutto per costoro che sono organizzati i tanti ritiri di preghiera e meditazione che, soprattutto nei mesi estivi o durante le festività, raccolgono all’interno delle mura monastiche centinaia (o persino migliaia) di praticanti buddhisti o daoisti.

D’altronde, ieri come oggi la maggior parte della popolazione si rivolge ai monaci buddhisti, ai preti daoisti o ai daoisti non-ordinati (che da sempre tendono a sfuggire al controllo statale), ai sacerdoti dei culti locali, ma anche a medium esperti nella scrittura ispirata, divinatori ed esorcisti, a seconda della propria esigenza del momento. Per costoro, ciascuno di questi ‘operatori del sacro’ ha un ruolo preciso e distinto (dai rituali per i defunti a quelli per ottenere salute e prosperità in questa vita, dalle pratiche meditative e realizzative a divinazione ed esorcismi) ma ugualmente necessario e valido.
Il fenomeno del revival delle religioni nella Cina contemporanea è chiaramente complesso e sfaccettato: un vero e proprio rinascimento che implica il recupero di rituali e pratiche tradizionali cadute in disuso o precedentemente vietate, ma anche una re-invenzione e, talvolta, una vera e propria creazione di istanze nuove. Più che un semplice ritorno del passato, quello che abbiamo di fronte è un quadro dinamico e in continuo mutamento, affascinante e certo meritevole di attenzione.
Ester Bianchi insegna Filosofia e Religioni della Cina, Sinologia e Letteratura Cinese presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze sociali, umane e della formazione dell’Università degli Studi di Perugia

FONTE:http://www.cinaforum.net/cina-revival-religioni-385-ester-bianchi/

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