L’insurrezione dei “gilet gialli”

dic 17, 2018 0 comments

Di Giacomo Gabellini
Tempi duri per l’apparato dirigenziale francese. Il pacchetto di misure – comprensivo di una defiscalizzazione da 100 euro per il salario minimo (misura sotto molti aspetti speculare ai famosi “80 euro” di Renzi), dell’abolizione delle tasse sugli straordinari e della riduzione dei prelievi sulle pensioni – promesso da Emmanuel Macron per placare l’ira dei cosiddetti “gilet gialli” rischia infatti di rivelarsi un vero e proprio boomerang perché suscettibile di privare il presidente francese dell’unica stampella che gli ha permesso di mantenere la carica in fino ad ora: l’appoggio dell’Unione Europea. O meglio, il sostegno della Germania, che lo stesso Macron ha fatto letteralmente di tutto per guadagnarsi.
La prima mossa compiuta in questo senso è stata la riforma del lavoro, implicante l’estensione delle contrattazioni sindacali al piano aziendale, la concessione del nulla osta per i licenziamenti anche alle imprese in attivo, l’abolizione degli arbitrati per stabilire le liquidazioni che le aziende devono versare ai lavoratori licenziati, l’eliminazione di una serie di garanzie di cui godevano i lavoratori impiegati in società con meno di 50 dipendenti, la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato e la costituzione di contratti a livello di settore. Si tratta di misure ampiamente penalizzanti per i lavoratori, che l’Eliseo ha rafforzato con il progetto di abolizione dello statuto dei ferrovieri volto a ridurre il colossale passivo (47 miliardi di euro) accumulato nel corso degli anni dalle ferrovie francesi attraverso l’abolizione di alcuni “privilegi” di cui, a detta del governo, godeva la categoria in oggetto. Senonché, «Le Monde» ha dimostrato con dovizia di particolari che i cosiddetti “privilegi” di cui parlava il governo altro non erano che garanzie ampiamente compensate dagli svantaggi che comportava quel genere di occupazione, e che comunque non erano certamente all’origine della voragine nei conti della società di trasporti nazionale. Il taglio delle spese imposto da Macron alle ferrovie francesi risultava invece perfettamente in linea con le norme comunitarie, che prevedono la liberalizzazione del traffico regionale a partire dal 2019 e di quello ad alta velocità a partire dall’anno successivo, e particolarmente adatto ad attrarre investimenti privati in vista della privatizzazione della società, cosa che consentirebbe allo Stato di liberarsi di una pesante zavorra e incamerare denaro sonante con cui migliorare lo stato dei conti pubblici. L’adozione di una rigorosa disciplina di bilancio è da anni tra le principali richieste formulate da Berlino nei confronti di Parigi, perché conforme al progetto di adeguamento della Francia al “modello tedesco” nel cui ambito rientra anche l’intensificazione della pressione sui salari, il ridimensionamento del colossale apparato di welfare francese e la riduzione del numero dei dipendenti pubblici (ben quattro milioni di persone). L’osservanza dei criteri previsti dal Trattato di Maastricht – verificatasi con rigidità variabile da Mitterrand in poi – aveva già incanalato la Francia in questa direzione, ma i provvedimenti adottati da Macron hanno indubbiamente segnato un cambio di passo.
La speranza coltivata dall’ex dirigente della banca Rothschild era quella di ottenere dalla Germania il rilancio del traballante “direttorio franco-tedesco”, vale a dire l’uso della Germania come amplificatore della potenza francese, come contropartita per l’introduzione di misure economiche gradite a Berlino. Stesso discorso vale per l’idea di condividere la gestione dellaforce di frappe con la Germania, che il governo tedesco ha di fatto accantonato – forse perché ritiene che sussistano condizioni tali da consentire alla Bundesrepublik di dotarsi di un proprio arsenale nucleare – avanzando un controproposta finalizzata a rendere “comunitario” il seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di cui la Francia è titolare dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. L’accoglienza che Macron ha mostrato ha riservato al progetto è stata piuttosto ambigua, benché il nobile intento dichiarato dai portavoce di Berlino di far sì che l’Europa “parli con una sola voce” in sede Onu lasciasse palesemente trasparire l’ambizione tedesca a conquistare il diritto di veto in maniera indiretta. Il disegno, elaborato dal vice-cancelliere Olaf Scholz, prevede infatti l’istituzione di un gruppo decisionale composto da dieci membri a cui prenderebbero parte, a rotazione, tutti i Paesi aderenti all’Unione Europea; in tale contesto, la Germania avrebbe la possibilità di spostare sistematicamente l’ago della bilancia a proprio favore facendo blocco con i suoi satelliti austriaco, olandese, lussemburghese, ecc.
In un’intervista rilasciata a «Marianne», l’ex ministro della Difesa francese Jean-Pierre Chevènement ha seccamente bocciato l’iniziativa tedesca, e condannato l’approccio passivo che Macron e i suoi predecessori hanno adottato nel relazionarsi con Berlino. Per l’ex stretto collaboratore di Mitterrand, la proposta di Scholz «si inscrive nel novero di una lunga serie di iniziative unilaterali prese dalla Germania senza previa consultazione con la Francia, come lo stop al nucleare nel 2011, l’obbligo del pareggio di bilancio introdotto tra il 2009 e il 2012, la minaccia di espellere la Grecia dall’eurozona, l’apertura dell’Unione Europea ai flussi migratori nel 2015… Senza dimenticare che nel 2008 la Germania impose l’inserimento nel corpo del Trattato di Lisbona della “sostanza” del progetto di trattato costituzionale europeo che era stato respinto per via referendaria dal 55% dei francesi. Questa tendenza alla prevaricazione, tollerata in silenzio anche da Sarkozy ed Hollande, non è affatto giustificabile […]. Se la Francia cedesse il suo seggio al Consiglio di Sicurezza con il pretesto di un’illusoria “mutualizzazione”, accetterebbe la sua retrocessione al grado di nazione di terza classe. Il continuo deterioramento della situazione economica in Francia a partire dall’adesione all’eurozona nei primi anni 2000 si riflette nelle statistiche relative al commercio – 70 miliardi di deficit, di cui un quarto nei confronti della Germania – e si traduce con la deindustrializzazione del nostro Paese. Al contrario, il surplus commerciale della Germania – 250 miliardi di euro all’anno, pari a quasi il 10% del Pil tedesco – è rigorosamente contro le regole di Bruxelles, ma abbiamo per caso visto la Commissione Europea imporre una procedura d’infrazione nei confronti della Germania per eccessivo avanzo commerciale? Nel medio periodo, l’accumulo di deficit potrebbe compromettere la capacità della Francia di mantenere e sviluppare il proprio apparato di difesa. Tuttavia, la deterrenza nucleare è imprescindibile per la conservazione dello status di membro permanente del Consiglio di Sicurezza. Se la Francia non provvederà a reindustrializzarsi, spalancherà le porte all’abdicazione nazionale».
Da un lato, dunque, potrebbe rapidamente venir meno perché i provvedimenti elaborati dall’Eliseo sono destinati a pesare sulle casse pubbliche per ben 10 miliardi di euro. Il che comporterebbe, come ammesso dallo stesso ministro del Bilancio Gerald Darmanin, l’incremento del deficit a quota 3,4%. Si tratta di una chiara violazione dei trattati europei, che prevedono una soglia massima di disavanzo pari al 3% rispetto al Pil e l’apertura di una procedura d’infrazione nei confronti di qualsiasi Paese inadempiente.
Evidentemente, Macron si illude di poter recuperare almeno una parte del consenso popolare, ma così facendo fornisce un ulteriore prova di conoscere molto poco i suoi concittadini e di avere una percezione alquanto distorta dei problemi che li affliggono. Va ricordato che l’insurrezione dei “gilet gialli” è scaturita fondamentalmente dal provvedimento che sanciva l’aumento delle accise sul gasolio (7 centesimi) e sulla benzina (4 centesimi) per finanziare una sorta di “svolta ecologica” concepita per gravare interamente sulle classi a medio-basso reddito che, da diversi anni a questa parte, si sono rese protagoniste di un vero e proprio esodo di massa (si parla di 100.000 persone all’anno) dai centri urbani alle periferie finalizzato alla ricerca di un costo della vita maggiormente sostenibile rispetto quello – letteralmente esorbitante – delle grandi metropoli. Lo status di pendolari acquisito con il trasferimento presso i sobborghi delle grandi città li rende naturalmente più esposti ai rincari di gasolio e benzina, visto e considerato che il pessimo stato in cui versa il trasporto pubblico li costringe a recarsi al lavoro e ad accompagnare i figlia a scuola in auto. La spesa per il carburante pesa “soltanto” il 3% dell’esborso medio delle famiglie francesi, ma anche un lieve incremento di questa percentuale tende a configurarsi come un problema difficilmente sormontabile in un contesto generale caratterizzato da una progressiva diminuzione del reddito che si protrae ormai da svariati decenni. I dati indicano che il tasso di povertà si attesta attualmente intorno al 17%, mentre circa metà della popolazione francese percepisce uno stipendio medio compreso tra i 1.139 e i 2.125 euro mensili; un livello rimasto praticamente inalterato da oltre dieci anni. Come spiega il professor Marco Giaconi, «il declino del reddito disponibile è, come in tutta Europa, il risultato di una distribuzione degli utili d’impresa che favorisce sempre gli azionisti ma mai i lavoratori dipendenti. E si tratta di una tendenza di lungo periodo. “Creare valore” per gli azionisti, come dicono i cretini del management. Ma ciò depriva l’impresa e i suoi lavoratori, che non vedono il becco di un quattrino da anni». Ad avvalorare la disamina ci ha pensato «Le Monde», secondo cui, in media, le spese fisse (affitto, bollette, ecc.) sono passate dall’assorbire il 12% del reddito nel 1959 a mangiarsi il 30% nel 2018. Per gli strati meno abbienti della popolazione, la quota si attesta a un incredibile 60%. E si badi bene che queste classi sono esentate dal pagamento della tassa sul reddito, che si applica invece al 43% della platea fiscale. Buona parte di questo ceto medio è anch’esso sul piede di guerra per ragioni piuttosto comprensibili: allo stato attuale, pur rappresentando appena il 10,8% di coloro che pagano la tassa sul reddito, i contribuenti con un imponibile superiore ai 50.000 euro coprono da soli il 70,4% del gettito. Il discorso si radicalizza poi se si prende in esame i cittadini con un imponibile che supera i 100.000 euro, che pur rappresentando il 2% del totale contribuiscono per il 40,2% del gettito.
Ad acuire le tensioni ha poi contribuito la decisione di Macron di abolire la cosiddetta “Imposta di Solidarietà sulla Ricchezza” (Impôt de Solidarité sur la Fortune, Isf), la tassa sugli alti redditi introdotta da François Hollande all’origine della proliferazione delle cittadinanze fittizie e dell’ondata di aperture di conti correnti all’estero da parte dei cittadini più abbienti – il caso Depardieu risulta paradigmatico in proposito. Oltre a provocare una perdita fiscale quantificabile in circa 3 miliardi di euro, l’abolizione della tassa è costata al presidente in carica un fortissimo incremento di impopolarità che né l’eliminazione della tassa sugli immobili (applicabile per quasi il 70% dei contribuenti) né l’introduzione di un pacchetto da 40 miliardi di euro di crediti d’imposta a beneficio di artigiani e piccole e medie imprese sono stati in grado di attutire.
Di qui le rivendicazioni dei “gilet gialli”, focalizzate sull’assegnazione di un alloggio ai circa 200.000 francesi che non ne dispongono, sull’introduzione di un’imposta sul reddito fortemente progressiva ma allo stesso tempo più equilibrata rispetto a quella vigente, sulla fissazione di un salario minimo a 1.300 euro al mese, sulla concessione di incentivi ai piccoli commercianti in un’ottica di penalizzazione dei grandi centri commerciali, ecc.. Detto in altri termini, per riprendere ancora Giaconi, «stretta sui salari, trasformazione dei contratti da stabili a temporanei (per il 54% dei casi) aumento dei costi del trasporto al lavoro, alla scuola, agli uffici. Ecco la composizione della miscela tonante che ha dato luogo alla rivolta dei “gilet gialli”». All’origine vi è quindi lo stesso processo di “germanizzazione” della Francia inaugurato da Mitterrand e portato avanti da tutti i suoi successori. Compreso Macron, che pur di tagliare il deficit era addirittura arrivato a concepire un abbassamento delle pensioni al di sotto del tasso d’inflazione e di procrastinare l’applicazione della riforma fiscale alle imprese. Il che ha offerto un ulteriore contributo a incendiare le polveri della rivolta, inducendo il presidente a innestare una brusca marcia indietro rispetto alle politiche di austerità portate avanti per mesi con lo scopo di riconsolidare il “direttorio franco-tedesco” che è inesorabilmente destinata a portare la Francia fuori dai binari in cui Berlino l’aveva instradata. Il pacchetto di riforme messo a punto da Macron prevede infatti stanziamenti per circa 10 miliardi di euro, i quali faranno lievitare il deficit al 3,4%, come ammesso dallo stesso Ministro del Bilancio Gerald Darmanin. Il che sta già inducendo la Germania, dove la nuova presidente della Cdu Annegret Kramp-Karrenbauer è chiamata a costruire il proprio consenso interno, a iscrivere la Francia nel novero dei Paesi problematici assieme all’Italia.
Macron si trova quindi tra l’incudine della Germania e il martello dei “gilet gialli”, che in un primo momento si è cercato di infangare con le solite tecniche, puntualmente elencate da Michel Onfray: «disprezzo, menzogna, criminalizzazione, demonizzazione, attacco personale, riduzione al minimo, discredito, drammatizzazione. Possiamo aggiungerne un altro: il processo sull’immaturità politica del movimento – la svalutazione. Queste persone sono troppo stupide, troppo provinciali, troppo incolte, troppo illetterate, troppo incapaci, troppo “superficiali e attaccabrighe”, si è detto un po’ dovunque, sono privi di titoli di studio. Non si è detto “brutti, sporchi e cattivi”, ma c’è mancato poco. Dopo Maastricht (1992), questi sono gli stessi elementi di linguaggio sprezzante che sono serviti alle classi dominanti per screditare chiunque non si allinei». Eppure, quella dei “gilet gialli” è un’insurrezione non si può in alcun modo sottovalutare la portata, dal momento che in Francia gli umori della “piazza” costituiscono uno storico banco di prova di fronte al quale ogni detentore del potere è chiamato inevitabilmente a presentarsi per misurare il proprio grado di legittimazione e, di conseguenza, il margine di manovra su cui può contare. Che Macron ne sia consapevole o meno.

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