Proteste, rivolte e repressione: così è esplosa la crisi in Iran

gen 26, 2023 0 comments


Di Mauro Indelicato

L’Iran è in fermento dal settembre 2022. Da quando cioè si è diffusa la notizia della morte di Mahsa Amini, giovane arrestata per non aver indossato correttamente l’hijab. Da allora tutte le tensioni interne alla società iraniana sono divampate coinvolgendo intere classi sociali e diverse minoranze etniche. Teheran ha risposto con la repressione, arrivando anche ad eseguire anche condanne a morte. Ma le proteste e le sollevazioni continuano.

Il detonatore delle proteste: la morte di Mahsa Amini

Tutto è iniziato quando, il 16 settembre 2022, si è diffusa la notizia della morte a Teheran di Mahsa Amini. Di origine curda, la giovane aveva solo 22 anni ed era stata arrestata dalla polizia morale per aver indossato in modo “improprio” l’hijab. Ossia il copricapo che ogni donna in Iran, dopo la rivoluzione islamica e dopo un’apposita legge introdotta nel 1983, è obbligata a portare.

La morte di Mahsa Amini ha subito generato rimostranze da parte di alcuni gruppi di giovani studentesse. A cui, poco dopo, si sono aggiunti altri movimenti radunati nelle piazze della capitale iraniana. A rendere possibile l’organizzazione delle proteste, è stato il fitto passaparola sui social.

La notizia ha fatto da detonatore a una situazione già molto tesa. I manifestanti hanno accusato la polizia morale di aver picchiato brutalmente la vittima e di averle inferto ferite mortali. Le autorità di Teheran dal canto loro hanno smentito questa ricostruzione. Secondo la polizia della capitale iraniana, Amini è morta per cause naturali all'interno della caserma.

Per dar manforte alla propria ricostruzione, è stato mostrato un video ripreso da una telecamera di sorveglianza posta all'interno della stazione di polizia dove si trovava la giovane. Nelle immagini, si nota lo svenimento di Amini, la quale ha perso i sensi improvvisamente. La tv di Stato ha inoltre trasmesso un'intervista a un neurochirurgo che ha reso note alcune patologie pregresse della ragazza, legate a un tumore al cervello avuto a 8 anni.

Questo però non ha placato l'ira di chi aveva già iniziato a protestare. Il rifiuto di far vedere il corpo della giovane al padre nel giorno del suo funerale, ha poi alimentato ulteriori sospetti. Non solo, ma molti manifestanti, oltre a non credere alla versione ufficiale, hanno deciso di scendere in piazza non solo per la morte di Amini ma anche per le ragioni che hanno portato la ragazza in carcere. La questione dell'hijab e il trattamento riservato a chi non lo indossa correttamente, hanno infiammato gli animi all'interno della capitale iraniana.

Gli scontri dilagati in tutto il Paese

Le manifestazioni hanno poi ben presto abbandonato i confini di Teheran. Un altro luogo diventato repentinamente epicentro dei disordini è stato Saqqez. Si tratta della città natale di Mahsa Amini, situata nella provincia del Kurdistan. Come si può intuire dal nome, è la regione curda dell'Iran ed è abitata in maggioranza da curdi.

La morte della ragazza di origine curda ha scatenato l'ira quindi anche dei cittadini iraniani appartenenti a questa etnia, minoritaria nel resto del Paese. Le proteste hanno quindi iniziato a riguardare anche le rivendicazioni da parte delle minoranze, toccando uno dei tasti più delicati del precario equilibrio interno iraniano.

Ai curdi si sono aggiunti gli azeri, nel nord del Paese, con proteste e scontri in città come Tabriz e Urmia. Così come, più a sud, anche i beluci. Questi ultimi sono di religione sunnita e hanno per questo storicamente lamentato una maggiore discriminazione. Nella provincia del Belucistan, il 30 settembre secondo diversi resoconti trapelati su alcuni media in farsi, nel capoluogo Zahedan si sarebbe verificata una delle stragi più gravi dall'inizio delle proteste. In particolare, la reazione delle guardie rivoluzionarie locali avrebbe causato la morte di 80 persone. Circostanza che ha acuito le tensioni nella zona, come dimostrato dall'attentato che il 28 ottobre ignoti hanno condotto contro due agenti, rimasti poi uccisi.

A sorpresa, sono poi state registrate manifestazioni anche nel cuore religioso dell'Iran. Qom e Mashad, due delle città sante per gli sciiti e dove hanno sede le scuole coraniche più prestigiose, hanno assistito al sorgere di diverse manifestazioni a partire dalla fine di settembre.

Le rivendicazioni dei manifestanti

Anche se spesso descritta come una rivolta delle donne, in realtà le manifestazioni in corso in Iran hanno subito assunto un carattere piuttosto eterogeneo. Alle rivendicazioni delle associazioni femminili e delle studentesse, si sono aggiunte anche quelle di diversi gruppi della società civile. A partire dall'intera classe studentesca, formata da giovani nati dopo il 1979 e distanti sotto molti aspetti dalla rivoluzione islamica. Oltre agli studenti, ad aderire alle proteste in modo diretto e indiretto sono state diverse categorie professionali.

Nelle regioni più distanti da Teheran, come detto hanno preso il sopravvento le istanze delle minoranze etniche e religiose. Più in generale, le proteste nel Paese hanno messo nel mirino ogni tipo di discriminazione. Sia quella legata al trattamento delle donne, così come alla visione sociale propria dei dirigenti della teocrazia sciita. E, infine, quella legata alle minoranze etniche. Motivo per il quale sta montando, tra i gruppi di protesta, l'auspicio di un cambio di regime e non invece delle semplici riforme interne al sistema nato con la Repubblica Islamica.

Da chi sono organizzate le proteste

Al momento non sembrano emergere veri e propri gruppi organizzati. Molte proteste sono nate sui social e non sono emersi né nomi e né sigle in grado di guidare le manifestazioni. Più volte è stato tirato in ballo il gruppo dei Mojahedin del Popolo Iraniano, considerato da Teheran nella lista dei gruppi terroristici. Il governo ha poi accusato organizzazioni di iraniani esiliati. Si tratta di sigle che hanno apertamente dato il proprio sostegno ai manifestanti, ma per le quali fino ad ora non è stato possibile stabilire il grado di coinvolgimento diretto nelle proteste.

La repressione del governo di Teheran

Le autorità della Repubblica Islamica hanno aumentato la loro risposta alle manifestazioni in proporzione alla crescita dei movimenti di protesta. La prima mossa ha riguardato il blocco delle telecomunicazioni del 19 settembre, al fine di interrompere il passaparola sui social dei manifestanti. Successivamente sono stati schierati in campo i basij, ossia il gruppo paramilitare legato ai pasdaran, i guardiani della rivoluzione. La posizione dell'ayatollah Ali Khamenei e del presidente Raisi, è legata ancora adesso all'intransigenza: per i vertici iraniani infatti, i manifestanti rappresentano gruppi nemici della rivoluzione sostenuti dall'esterno.

Da qui le sembianze molto dure assunte, con il passare delle settimane, dalla repressione. Fonti ufficiali parlano almeno di 500 morti a seguito degli scontri. A questi occorre aggiungere almeno 19.000 persone arrestate. Cifre che però, secondo diverse organizzazioni internazionali, sono di gran lunga minori rispetto a quelle reali.

Una particolarità della repressione, denunciata in modo anonimo ad alcuni media dai medici iraniani, riguarda il ferimento dei manifestanti. I basij infatti, durante gli scontri mirerebbero in specifici punti del corpo. Le donne sono colpite maggiormente agli occhi, al petto e nelle parti intime. Ai maschi vengono sparati proiettili di gomma da distanza ravvicinata sulle braccia e sulle gambe. Segnalate da organizzazioni internazionali anche presunte torture subite in carcere dai prigionieri, con il fine di estorcere confessioni o di intimidire altri manifestanti.

Le prime condanne a morte

Il 4 dicembre l'annuncio dell'abolizione della polizia morale, fatto dal governo di Teheran, sembrava aprire spiragli per un allentamento della repressione. Ma è stato l'esatto contrario. Il capo della magistratura, Gholamhossein Mohseni Ejei, il giorno dopo ha dichiarato l'ampio sostegno, senza mezzi termini, del potere giudiziario iraniano alle istanze dei leader della Repubblica Islamica.

L'8 dicembre è stata così eseguita la prima condanna a morte. Mohsen Shekari, ragazzo di 23 anni, è stato impiccato dopo un processo durato appena tre udienze. L'accusa per lui era quella di “guerra contro Dio”, un reato che prevede la pena massima. Era stato arrestato quattro mesi prima durante uno dei blocchi stradali a Teheran. Nei giorni successivi sono state eseguite altre condanne a morte, sempre per lo stesso tipo di reato e sempre contro manifestanti arrestati durante le proteste.

L'Iran continua a essere in subbuglio

Nonostante l'aumento della repressione, le manifestazioni stanno proseguendo anche in questi giorni. La scia di sangue sta infatti spingendo molti a prendere definitivamente le distanze dal governo. Dal canto loro, le autorità sanno di avere comunque dalla propria parte non solo basij, pasdaran e magistrati, ma anche una fetta di popolazione che non appoggia le ragioni delle proteste e che non vuole un cambio di regime.

Al mondiale di calcio in Qatar, svoltosi nel novembre scorso, nella prima sfida della nazionale iraniana i giocatori non hanno cantato l'inno. Sugli spalti, i tifosi si sono divisi tra chi ha appoggiato questa scelta e chi invece l'ha criticata. Una spaccatura importante, emblema della spaccatura sociale emersa dopo l'inizio delle proteste.

Anche se il governo di Teheran dichiara di avere la situazione sotto controllo, i tumulti non sono terminati e anzi le esecuzioni e il continuo spargimento di sangue potrebbe portare all'aumento della violenza nei prossimi mesi. È la prima volta, dalla nascita della Repubblica Islamica, che delle proteste si protraggono per più di tre mesi.

FONTE: https://insideover.ilgiornale.it/politica/proteste-iran-rivolte-repressione.html

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