Dai campioni nazionali al golden power: le prospettive della tutela del sistema-Paese

apr 7, 2020 0 comments


Oggi l’Osservatorio ha il piacere di presentarvi il quarto capitolo del dossier “Coronavirus: sfide e scenari”, dedicato alla discussione con Alessandro Aresu della difesa degli asset strategici del sistema-Paese italiano nel pieno della crisi sanitaria ed economica del coronavirus. Aresu, nato a Cagliari nel 1983, è consigliere scientifico di Limes, direttore scientifico della Scuola di Politiche e capo della Segreteria Tecnica del Ministro del Sud e della Coesione Territoriale. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano i saggi “L’interesse nazionale. La bussola dell’Italia” (con Luca Gori, Il Mulino, 2018) e “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina” (La Nave di Teseo, 2020)
Intervista di Andrea Muratore e Ivan Giovi a Alessandro Aresu.
Tra “economia di guerra” e discussioni su possibili guerre economiche nelle ultime settimane la discussione politico-mediatica su cosa è da definire “asset strategico” per il sistema Paese è tornata d’attualità. Dalla Consob al Copasir, tra allarmi per rischi di scalate straniere e blocchi delle vendite allo scoperto a Piazza Affari, assistiamo a un incremento del perimetro dei settori messi sotto osservazione. Come giudica questi sviluppi?
Vivevamo già in una “corsa globale ai sistemi di controllo degli investimenti esteri”, come definita in un bel libro curato da Giulio Napolitano. Una corsa che ha coinvolto l’Italia. L’evento cruciale rimane l’intervento sulla normativa nel 2017, per il caso Vivendi – Tim. In quel caso il governo ha applicato il concetto più pervasivo dei poteri speciali a una vicenda intraeuropea.
Nei miei lavori su golden power e asset strategici (su Limes, nel saggio sulla comparazione della “geopolitica della protezione” che ho curato con Matteo Negro, nello scritto per la pubblicazione sul tema del Dis, in altri testi) ho sempre sottolineato quest’elemento, che è cruciale: il paradosso è che uno strumento normativo nato per adattarsi alle regole europee individua, dal punto di vista geopolitico, alcuni nodi conflittuali interni all’Unione Europea. Questi nodi, invece di ridursi, aumentano: quindi vanno riconosciuti e affrontati.
Secondo aspetto: l’Italia si trova nel mezzo della grande questione della nostra epoca, la competizione tra Stati Uniti e Cina. La corsa al controllo degli investimenti esteri è parte di una più ampia “corsa alla sicurezza nazionale”, che si colloca all’interno di questo conflitto. Questo ha implicazioni sulle telecomunicazioni, sul 5G, sulle forniture. Ha comportato un altro adattamento normativo.  
Terzo aspetto: l’Italia è più debole quando è colpita da una crisi, per ragioni finanziarie. Chiaramente, anche in una crisi cosiddetta “simmetrica”, conta da che posizione ci arrivi, come i mercati giudicano la tua posizione e la solidità complessiva del sistema in cui sei collocato. Altra discussione, altro adattamento. Più pressante.
Su questi temi, nel corso di questa legislatura, il Copasir ha lavorato con uno spirito di ampia condivisione, all’unanimità, con Guerini prima, con Volpi ora. Questo è un punto positivo, che rafforza il suo operato.
A tornare è sempre il tema del primato della protezione sugli affari, della proiezione geopolitica dei sistemi-Paese sull’economia. Ne parla nel suo saggio più recente, di cui in futuro discuteremo su queste colonne. I “cigni neri” delle ultime settimane accelereranno questa tendenza?
Sono processi già in corso, appunto, per cui la crisi attuale funziona come acceleratore. Una crisi che in termini di valori azionari ma soprattutto di operatività delle aziende ha un impatto enorme, che credo sarà molto più ampio della crisi di più di un decennio fa.
Inoltre, la crisi ha avuto una cronologia diversa, un calendario differente nei vari Paesi. Ha visto svilupparsi conflitti geopolitici su aiuti, contratti e doni; polemiche sui dati e sulla loro raccolta; battaglie sul tracciamento; ripercussioni sulle catene globali del valore; allargamento della sicurezza nazionale intesa come “sicurezza nazionale sanitaria”. E, oltre alla “corsa” per il vaccino e per altri aspetti del settore biomedicale, vedremo molti altri acceleratori di conflitti, negli scontri industriali. Ne parlerò anche nel prossimo numero di Limes. Quindi bisogna mantenersi lucidi per analizzarli e comprenderne le implicazioni.
Non è facile, peraltro. È un momento difficile, duro. Personalmente, nei primi giorni non riuscivo a riflettere bene su questi temi, perché sentivo la sopraffazione del peso di quello che ci sta capitando. Poi ci si ferma un secondo e si riconosce che ci sono sempre tanti temi appassionanti su cui concentrarsi, e si continua a vivere. 
In Italia da tempo studiosi come Giuseppe Berta sottolineano come il capitalismo nazionale debba cercare nuovi paradigmi. La necessità di uno “scudo” strategico in momenti di crisi segnala la debolezza dei nostri campioni nazionali? Come veniamo a patto con la nostra fragilità finanziaria in questi frangenti?
È uscito su “L’Industria” un bel saggio di Ugo Pagano che discuto anche sull’ultimo numero di “Pandora“. Pagano aiuta a vedere un paradosso della stagione di privatizzazioni. In realtà, le grandi imprese quotate con controllo pubblico hanno mantenuto e aumentato il loro rilievo, rispetto all’impresa privata. Pagano ne loda anche la governance. La grande impresa italiana pubblica quotata è forte, rispetto alle aziende private italiane. Sono invece piccole rispetto ai competitor, con parziali eccezioni. Nei momenti di crisi, questo è un tema da considerare.
Io, rispetto a Beppe Berta, che è un amico e un maestro, sono più statalista. Ho sempre sostenuto che per l’Italia il “fantasma dell’Iri” sarebbe tornato. Perché abbiamo un problema di competenze manageriali e industriali che la fine dell’Iri ha lasciato aperto. Se avessimo il management di Telecom nei primi anni ’90, sarebbe meglio. Purtroppo, non esiste più. D’altra parte, lo statalismo deve essere sempre realista, e in relazione con i capitali privati. Non è che arriva un’entità statale o parastatale che si compra tutto, in modo indiscriminato: sarebbe folle, oltre che irrealistico, considerando che dobbiamo anche attirare investimenti esteri. Il problema decisivo italiano è quello della dimensione di impresa, su cui occorre quadrare il cerchio tra risparmio e investimento. Tra la forza del risparmio italiano e gli investimenti necessari per crescere. Secondo me – ma non sono obiettivo, sono cose alle quali ho lavorato – era importante la strada di strumenti come Pir, Spac, su cui purtroppo c’è stata eccessiva incertezza normativa.
Sapete quanto fattura l’azienda italiana che fa respiratori (alla quale dobbiamo essere grati) rispetto al “campione” tedesco di quel settore? Circa un trecentesimo.
Il “golden power” sulle acquisizioni è un esempio di strumento di cui si parla per tutelare con organicità il sistema produttivo. Quali sono le prospettive di rafforzamento dei “poteri speciali”?
Fino a qualche mese fa eravamo in pochi a parlare di “golden power”, mentre ora è un tema all’ordine del giorno e coinvolge un dibattito più ampio. È un bene. Gli interventi del governo, secondo la mia personale opinione di analista, hanno la giusta ratio e vanno nella giusta direzione. Corrispondono alle prospettive delineate dalla comunità di studiosi del tema. La discussione sull’ambito finanziario e assicurativo c’è da tempo, la crisi ha aggiunto un’attenzione specifica per filiere logistiche, alimentari, sanitarie, nonché una preoccupazione per interventi a prescindere dal processo formale di notifica.  È importante l’attenzione alla catena del valore biomedicale, oltre a una migliore definizione del concetto di minaccia anche nell’ambito intraeuropeo. Si verificherà al meglio dal punto di vista giuridico che nessuno possa minacciare l’Eni, che chiaramente in questo scenario dell’energia affronta sfide enormi. Anche se non sono convinto che un’azienda francese o olandese possa veramente cercare di scalare l’Eni in modo ostile. Un’operazione ostile del genere verso l’Italia, in qualunque situazione, sarebbe una cosa enorme dal punto di vista diplomatico: una minaccia alla sovranità nazionale che nessuno nel nostro Paese dovrà mai accettare.     
Vorrei dire però che tutto questo ha senso solo se facciamo altri due ragionamenti.
Il primo è il passaggio “e dopo?”. Mi spiego.
Blocchi un investimento. E dopo? Prescrivi condizioni sull’acquisizione di una società. E dopo? Entri in quella società con un veicolo pubblico. E dopo?
Per esempio, in Tim i passi “speciali” sono stati fatti. E ora, l’azienda crea valore in modo soddisfacente, valore per gli azionisti, valore sociale, valore tecnologico? È importante porsi queste domande.  
Bisogna sempre chiedersi “e dopo?” quando si agisce su un asset. Occorre quindi avere una cultura diffusa che consenta di farlo. Fare analisi di scenario, ragionare in termini anticipatori, non solo reattivi, rafforzare la cultura industriale e la consapevolezza geopolitica, per sapere cosa bisogna fare. Il golden power è uno strumento giuridico basato sull’individuazione di minacce, poi ci sono le politiche industriali, la strategia di un Paese, c’è il capitalismo italiano come è realmente, c’è il modo con cui ci si pone rispetto ai grandi shock.
Gli shock possono cambiare il senso dei settori strategici, in alcuni casi limitati. Per esempio, in anni precedenti a me è sempre sembrato sbagliato che i veicoli di Cassa Depositi e Prestiti dovessero intervenire in Parmalat (non è avvenuto) oppure, come hanno fatto, acquistare quote “segnaletiche” delle società alimentari. I soldi del risparmio postale sono limitati, perché li devo spendere in chi fa cibo (per non parlare degli alberghi) se poi non investo con attenzione nella filiera dell’automotive, nell’aerospazio, nelle scienze della vita, in altri settori ad alta tecnologia di grande importanza? Ci sono aziende alimentari private importanti (anche in diversi distretti meridionali), non è che deve arrivare un’entità statale a prendersi la quota cosiddetta “segnaletica”. Oggi, l’importanza della filiera alimentare, l’accumulazione di riserve alimentari degli Stati, la competizione su questi temi, può indurre a ripensare questa convinzione.
In ogni caso, se tutto è strategico, nulla è strategico. Dobbiamo mantenere una consapevolezza delle differenze tra i settori. Non è che facciamo intervenire il governo o l’intelligence su tutti i mobilifici d’Italia. Anche perché le risorse sono limitate: le stesse risorse umane della sicurezza nazionale, sicurezza economica e sicurezza fisica. Sul fronte economico, bisogna pensare seriamente a rafforzare alcune capacità in materia di ristrutturazione aziendale, perché a un certo punto quel mercato diventerà molto forte e lì potrebbero esserci fenomeni predatori diffusi. Poi lo Stato secondo me deve stare sempre attentissimo alla penetrazione della ‘ndrangheta. Anche in Lombardia, dove potrebbe espandersi rispetto al suo radicamento, già molto rilevante: una delle cose più importanti per la sicurezza nazionale nell’Italia di oggi è leggere il libro di Antonio Talia “Statale 106”.     
Il secondo punto è che il rafforzamento degli “scudi” può arrivare solo fino a un certo punto. Io penso che ci voglia soprattutto il rafforzamento delle strutture amministrative.
In primo luogo, in Italia c’è un enorme problema di risorse umane. È vero a tutti i livelli, in tutte le fasi della politica degli investimenti. Se parlate con chiunque, dalla BEI ai Comuni, sentite questa necessità. Nell’autunno del 2017 avviene un dibattito – che andrebbe riletto oggi – sull’opportunità di un ampio programma di nuove assunzioni pubbliche, legate ai pensionamenti: Sabino Cassese aveva lamentato i danni che potrebbero giungere dall’allargamento della PA, dopo le dichiarazioni dell’allora sottosegretario Rughetti. Per mostrare i limiti della posizione di Cassese interviene sul tema Giuseppe Provenzano, che al tempo era vicedirettore della Svimez. Provenzano è un mio amico, con cui collaboro, quindi premetto che non sono obiettivo, ma contano le idee. Per me in quel contesto aveva torto Cassese e aveva ragione pienamente Provenzano, il quale nel suo articolo diceva molte cose di totale buon senso, soprattutto sulla “ristrutturazione alla rovescia” subita dalle generazioni più giovani negli ultimi anni, che ha lasciato le nostre strutture molto indebolite, soprattutto su nuove, essenziali competenze. Certo, ci sono i colli di bottiglia burocratici e altri temi, ma questa debolezza di risorse umane è un punto essenziale dei problemi sugli investimenti in Italia.    
Ora, dobbiamo sapere che questa debolezza si ritrova anche nelle “alte sfere”: ci sono davvero poche persone in alcune direzioni ministeriali di primissima importanza, o in compiti di rilevanza strategica. Sono troppo pochi e ci sono pochi giovani. E la sicurezza economica, come la sicurezza cibernetica, passa dalle persone. L’importanza di rafforzare le amministrazioni dell’economia in Italia mi è stata trasmessa da molte conversazioni con uno dei civil servant più capaci del nostro Paese, Roberto Garofoli. Nei “poteri speciali”, ha un ruolo importante l’istruttoria del Gruppo di Coordinamento, che però non è un organismo stabile, non è una burocrazia stabile preparata per analizzare l’evoluzione tecnologica, la sicurezza nazionale, le catene del valore industriali, le dinamiche geopolitiche. È formata soprattutto da delegati dei ministeri, che non svolgono certo quel compito tutto il giorno, perché hanno altre funzioni da svolgere. Quindi quella struttura, in primo luogo, andrebbe istituzionalizzata e resa stabile, per lavorare più velocemente e soprattutto per farne un organismo di confronto sui temi che ho indicato, con competenze plurali. La sicurezza economica necessita di competenze variegate: io di questi temi ho capito qualcosa perché ho avuto la fortuna di confrontarmi sempre, oltre che con analisti geopolitici, con giuristi, investitori, economisti, fisici, scienziati. In tanti (recentemente Castellaneta e Pelanda) propongono un Consiglio Nazionale di Sicurezza, che potrebbe avere sotto di sé questa burocrazia stabile.  
Recentemente lei ha sottolineato la crescente interoperatività delle figure della sicurezza nel sistema economico anche nel caso italiano, in un contesto di aumento dei casi di sliding doors tra istituzioni e imprese: “Emerge sempre di più l’importanza della sicurezza nelle infrastrutture critiche, ed è evidente il loro allargamento a più settori. Ciò che era già “critico” diventa “più critico”. I veterani degli apparati di sicurezza sono nominati, con maggiore frequenza, nelle società di infrastrutture, telecomunicazioni, ma anche finanziarie”. Che scenari apre questa compenetrazione?
Sì, quell’osservazione del 2018 ha descritto quello che è successo in modo più frequente in seguito. Ripeto la mia impostazione di intelligence economica: siccome il caso fondamentale è stato Tim-Vivendi del 2017, da lì si poteva prevedere l’evoluzione, anche contando la generale corsa alla sicurezza nazionale nel mondo. Dalla cantieristica, ai cavi sottomarini, fino alle società finanziarie, alle infrastrutture di rete, sono importanti certe competenze e certi percorsi di carriera. Continueranno a esserlo. 
Il punto essenziale non è solo premiare persone che hanno svolto una importante carriera nelle forze dell’ordine, nelle informazioni per la sicurezza, nella diplomazia, nella difesa. Persone che sono chiaramente capaci anche grazie all’esperienza acquisita nelle strutture che hanno gestito (basta leggere un articolo di Massolo per capirlo). Il tema è valorizzare le competenze dei giovani, di chi è impegnato ora nella carriera e di chi lo sarà in futuro. Formare più ingegneri della sicurezza, più analisti dei dati informatici e geopolitici, lavorare meglio con le università, trasmettere la fiducia di lavorare nei corpi dello Stato. Soprattutto in tempi difficili.
In conclusione, vorremmo chiederle un parere sulla comparazione delle strategie anti-crisi poste in essere da Roma con quelle degli altri Paesi europei quali Francia e Germania: come stanno evolvendo le loro discipline queste nazioni?
In Francia i confini tra pubblico e privato non sono mai esistiti. Ci sono differenti cordate, ma gli imprenditori privati devono fare gli interessi della République, altrimenti non possono operare. Non è che, per esempio, sei un’azienda logistica francese che opera in Africa e agisci da “privato”. Non diciamo barzellette. La Francia è una potenza militare, al contrario degli altri Stati europei. La Francia preferisce la morte alla rinuncia allo Stato e ai suoi “corpi”.
In Germania si usa l’espressione “economia sociale di mercato” per perseguire un fondamentale obiettivo: non dire nulla. Questa espressione, che andrebbe studiata con più attenzione – segnalo le ricerche su questo tema di un mio allievo della Scuola di Politiche, Lorenzo Mesini – è diventata una frase fatta che si può appiccicare a tutto. Appunto, per non dire niente. È però avvenuto un cambiamento in Germania nel rapporto agli investimenti della Cina: a un certo punto – nella robotica, nella sistemistica, nel biomedicale, in altri settori – i tedeschi hanno colto una minaccia per il loro cuore capitalista, il Mittelstand delle medie imprese. Ora i tedeschi dicono chiaramente (il ministro Altmaier l’ha detto spesso) che agli stranieri non faranno comprare più nulla di rilevante, se il governo non vorrà. Ma avranno pure loro tante altre questioni critiche da affrontare, a partire dall’automobile, che già agita il sonno di Angela Merkel.  
Le opinioni qui espresse da Alessandro Aresu sono strettamente personali e non impegnano in alcun modo enti di appartenenza pro tempore.
(A cura di Andrea Muratore e Ivan Giovi)
4 – Continua
  1. “Una concezione adattiva della Storia” di Pierluigi Fagan.
  2. “La Chiesa contro il coronavirus: il mondo sulle spalle di Francesco” di Emanuel Pietrobon.
  3. “Che ne sarà di noi?” di Gustavo Boni.
  4. “Dai campioni nazionali al golden power: le prospettive della tutela del sistema-Paese”, conversazione con Alessandro Aresu.

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